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 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

Con gli attentati di Firenze e Bologna lo scontro sulla Tav compie un altro passo sul sentiero dell’irrealtà. La decisione di incendiare il sistema elettrico dell’alta velocità a Bologna, un’opera che esiste da anni e da anni è vita quotidiana di milioni di persone, è la prova che il simbolico sta prendendo definitivamente il sopravvento sul reale

Con gli attentati di Firenze e Bologna lo scontro sulla Tav compie un altro passo sul sentiero dell’irrealtà. La decisione di incendiare il sistema elettrico dell’alta velocità a Bologna, un’opera che esiste da anni e da anni è vita quotidiana di milioni di persone (compresi i militanti No Tav fermati tempo fa mentre utilizzavano un Frecciarossa), è la prova che il simbolico sta prendendo definitivamente il sopravvento sul reale.
Non si combatte più questo o quel progetto di collegamento, questa o quella spesa, il rischio di infiltrazione mafiosa negli appalti. Al contrario, la realtà diventa un puro strumento, occasione per propagandare la propria esistenza nella galassia dell’antagonismo italiano. Il simbolo diventa soggetto. Si dà fuoco alla cabina elettrica perché la Tav è diventata l’impero del Male.
La battaglia politica di un tempo, ancorata solidamente alla rivolta di una popolazione per il modo sbagliato con cui negli anni Novanta le ferrovie disegnarono il progetto della Torino-Lione, si è trasformata progressivamente nell’ideologia svuotata di sostanza di oggi. Impedire agli italiani di raggiungere i parenti per il pranzo di Natale perché la rete ferroviaria bolognese (anche quella dei treni dei pendolari) è interrotta dall’incendio, non è un gesto particolarmente rivoluzionario. È, anzi, un’azione che ha perso ormai ogni rapporto con i motivi della protesta originaria da cui partiva. È il sacrificio del coccodrillo per protestare contro le condizioni di sfruttamento nelle fabbriche delle t-shirt.
C’è però un aspetto ben più grave e pericoloso nella scelta di piazzare una bomba incendiaria a pochi metri dai binari dove i treni corrono a trecento all’ora. Nel regno del simbolo fine a se stesso, la guerra per la visibilità e l’egemonia si combatte a colpi di azioni sempre più clamorose. Chi la fa più grossa conquista la guida del movimento. Tre anni fa i No Tav valsusini se la presero con i giornali che raccontavano i lanci di sassi contro gli operai impegnati nei cantieri. Sembra passato un secolo.
Oggi, a furia di alzare il livello della provocazione, nella lotta continua per l’egemonia tra antagonismo autonomo e anarchico, ci si accapiglia per stabilire se il lancio di venti molotov contro un cantiere della val di Susa sia stato un atto di terrorismo o di sabotaggio. Una deriva dialettica che finirà per abituarci sia al primo che al secondo considerandoli normali espressioni di dissenso, complici le fughe estetizzanti di una parte dell’intellighenzia nazionale. Perché, nel mondo in cui l’ideologia ha perso ogni contatto con la realtà, siamo pronti ad assuefarci a qualsiasi narrazione fino agli esiti più tragici.
Forse l’unico modo per uscirne è quello di tornare a considerare la Tav per quello che è: un sistema di trasporto ferroviario. Non l’impero del Male e non la panacea di tutti i mali. Semplicemente un’opportunità che ha costi, rischi e benefici. Questo probabilmente dovrebbe provare a fare la politica: disinnescare l’ordigno dell’ideologia. Riprendendo il suo ruolo e liberandosi anche dalle conseguenze paradossali di una visione assoluta. Ad esempio, se la Tav è il simbolo del Male, come fa il governatore (di Sel) della Puglia ad essere favorevole alla nuova linea veloce tra Napoli e Bari?
Il ritorno alla realtà potrebbe forse costare qualche prezzo elettorale a una parte della sinistra ma le consentirebbe di riprendere una discussione franca sui caratteri dello sviluppo italiano. Sdoganando un termine, sviluppo, che fino a metà del secolo scorso caratterizzava i programmi dei partiti riformisti (quando il treno era sinonimo di progresso) e che da decenni pare invece diventato una impronunciabile bestemmia da lasciare ai proclami della destra.