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 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

Il treno ancora nel mirino. Una lunga storia di stragi e attentati in Italia. Per l’anarchico cantato da Guccini era un simbolo del lusso degli oppressori. Per i fascisti e i mafiosi degli anni ’70 e ’80 era l’obiettivo perfetto per seminare il terrore. Ecco chi sono i suoi nemici

«Akor... Akro...». Naso sul finestrino appannato, un ragazzo africano non sa decifrare il cartello blu. Dove siamo? Arcoveggio. Neanche i bolognesi conoscono questa stazione dove i treni non fermano mai. Oggi sì. Quelli che vengono da Nord, dirottati qui, in periferia. Il regionale veloce 2885 per Rimini s’arresta cigolando in mezzo al nulla. «Ma io devo andare a Pescara», scende e si guarda attorno spaesata una donna, forse una nonna, busta da ipermercato con due pacchetti regalo. «Ma perché? Ma che ragione c’è?», ripete a se stessa. Come se l’avessero fatto personalmente a lei, il sabotaggio.
No, pare di no. Chiunque sia stato, ce l’ha solo coi treni. Infatti li conosce bene. Dice la Filt Cgil che sapevano dove mettere le mani per far danno. Ma perché i treni? Perché ancora i treni? A Bologna, quando gira la voce che hanno fatto qualcosa a un treno, corrono i brividi. La bomba del 2 agosto ‘80, 85 morti; la strage dell’Italicus del ‘74, dodici morti. Chissà se lo sapevano, gli incendiari, che questo 23 dicembre è il trentesimo da quello in cui una bomba fece saltare il rapido 904, lì sull’Appennino, la chiamarono la strage di Natale, diciassette morti. Forse sono troppo giovani o troppo ignoranti per saperlo, ma la coincidenza è terrificante. Bombe nere, bombe mafiose, trame massoniche, trame deviate. Stavolta, sarebbero accendini anarchici? Si vedrà. Però coi treni se la sono presa tutti, sotto ogni bandiera o obbedienza. I treni sono un bersaglio ideologicamente versatile.
Eppure non c’è panico fra la folla che sbarca all’Arcoveggio. Forse anche molti passeggeri non hanno memoria storica. Forse è più forte l’incredulità. Hanno fatto questo, a chi? A noi? «Siamo solo gente che lavora e va a riposarsi per Natale», dice Antonio da Parma che ha perso la coincidenza per Napoli. Anche la voce sintetica di Trenitalia non trova le parole, «... a causa di accertamenti giudiziari», «... a causa di atto vandalico», il suo repertorio di spiegazioni preconfezionate non comprende le parole sabotaggio o attentato.
Ma forse, più che coi treni, ce l’hanno col Treno. Che è un bersaglio perfetto, non solo perché è un mezzo di trasporto ubiquo e indifeso. Il treno è un emblema, qualcuno ha detto un trauma della modernità. In due secoli ha preso a bordo tutti i suoi lati oscuri. I convogli degli emigranti meridionali. Le tradotte dei fantaccini mandati a morire in trincea. I vagoni per Auschwitz. Il treno è stato il coltello dell’uomo bianco, lama coloniale che sventrava i continenti, “cavallo d’acciaio” che incrociava il sentiero del bufalo per sterminarlo. Un mostro vorace, per gli analisti del suo secolo: alter ego della “bestia umana” per Èmile Zola, «vandalizzatore di paesaggi» per John Ruskin. C’è forse un’eco di quell’antipatia antica, più morale che ideologica, sotto la scorza ambientalista dei furori No Tav, in un paese dove l’incultura dell’automobile è stata ben più devastante, ma che non ha mai conosciuto movimenti No Car. I simboli hanno una forza d’inerzia. Nel millennio aperto dal terrorismo che vola, anche i grandi attentatori, quelli che non mirano a sabotare ma proprio ad ammazzare, non disdegnano di tornare a terra, sui binari, da Atocha alla metro di Londra fino alla burbanza criminale di un neofascista dell’ultima retata, che intercettato dice «la via dell’Italicus è l’unica percorribile».
«Sembrava il treno anch’esso / un mito di progresso»: ma per il fochista anarchico Pietro Rigosi era il simbolo del lusso degli oppressori, e contro un treno di lusso, non lontano da qui, il 20 luglio 1893 ritorse la sua stessa potenza bestiale, la motrice a vapore numero 3541 «lanciata a bomba contro l’ingiustizia», così cantò nella sua Locomotiva Francesco Guccini cent’anni dopo. È ancora quello il treno da colpire? Chiediamolo a Guc- cini stesso, chissà. Ma «no, non è più quel mito», dice il saggio di Pavana, «scelgono il treno come bersaglio perché fa rumore fermare i treni, metti in difficoltà tanta gente, la notizia diventa grossa. Non sono nella testa di questi qui, ma credo cerchino solo una cassa di risonanza».
Sì, ha ragione. Del resto, non è stato un sabotaggio anticlassista, hanno messo fuori uso anche le linee dei pendolari, non solo l’Alta velocità. I passeggeri che arrancano a piedi dall’Arcoveggio fino a Bologna Centrale, un chilometro di marcia, non hanno auto blu, sbuffano, imprecano coi trolley al guinzaglio, poi finalmente si accalcano davanti ai tabelloni luminosi come davanti ai megaschermi dei mondiali, i ferrovieri digitano soluzioni sui tablet, «dunque può prendere il frecciabianca fino a Firenze poi... «. È un’umanità quotidiana che s’arrabatta per salvare la serenità attesa di un ritorno a casa, anche i treni veloci non sono «pieni di signori», il treno è l’unica risorsa di chi, anziani, stranieri, ragazzi, non ha a disposizione un’auto. Sarà anche un business, che cosa non lo diventa quando ci sono di mezzo appalti e capitali. Ma visto da chi lo usa, il treno ormai è il grado zero del viaggio, è un castello viaggiante disincantato, è il torpedone dell’italiano semplice.
Sui binari della stazioncina dell’Arcoveggio una varia umanità infreddolita aveva messo in conto con sopportazione i soliti ritardi, il treno stipato, questo è solo un disagio in più. Seduta sul muretto di cemento sbrecciato, una ragazzina cerca di tranquillizzare il cellulare tenuto con due mani, «mamma, mamma, tranquilla, adesso arriva il pullman e mi porta in un’altra stazione e lì poi vedo, entro sera arrivo, sto bene, non è successo niente... «. No, colpire il treno non è più mirare alto, non è azzoppare il destriero corazzato del Potere. È sparare nel mucchio della faticosa vita quotidiana di chi il potere non ce l’ha.