Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

Forza Barenboim, che s’incazza con la signorina che fa fotografie col flash alla Scala. E abbasso Pereira, che stende la passatoia a gente che spende 2.500 euro per un biglietto e ha pure la faccia di arrivare in ritardo. Viva i parolai, piuttosto, e abbasso i contabili. Viva la vecchia Italia, che tanto è morta e sepolta: l’epitaffio, giustamente, lo merita in musica

Ma il Teatro alla Scala – domanda – è ancora uno specchio del Paese e di quanto sta cambiando? È lo specchio di una parte di esso, almeno? Oppure certi paralleli sono solo delle forzature per pennivendoli? L’ultimo episodio è di lunedì: Daniel Barenboim, il maestro, s’è incazzato e ha rimbeccato una tizia che lo fotografava col flash durante il concerto di Schubert: ha smesso di suonare il pianoforte e le ha detto «signorina, io cerco di darvi il meglio, ma voi non avete rispetto. Ve l’ho detto a ogni concerto, la prima volta in tono scherzoso, adesso lo dico sul serio: quelli che fanno le fotografie durante i concerti sono dei maleducati». Applausi, ovvio. Poi ha ripreso a suonare. Può darsi che Barenboim stia togliendosi qualche sassolino dalle scarpe, ora che ha terminato il suo incarico alla Scala: ma nelle scorse settimane c’era stato un altro episodio rivelatore. Il sovrintendente Alexander Pereira, infatti, s’era messo in testa d’istituzionalizzare ben cinque minuti di tolleranza per i ritardatari. La regola della Scala è sempre stata giustamente inflessibile, nel senso che è vietato entrare a sipario aperto (in platea, almeno) e occorre aspettare l’intervallo successivo: diversamente da quanto è accaduto a Corrado Passera durante la Prima del 7 dicembre scorso, per esempio. Pereira diceva che c’era gente che aveva sborsato un sacco di soldi e che si vedeva negare l’ingresso per un minuto di ritardo, gente che poi diventava anche aggressiva con le maschere e il personale: il sovrintendente ebbe già a sperimentare la regoletta a Vienna e a Zurigo e a Salisburgo – ha detto – ma a quanto pare alla Scala non c’è niente da fare, ha dovuto fare marcia indietro. Che è curioso, a pensarci: i nordici – quadrati e rigorosi – hanno accettato il ritardo accademico, mentre il nostro sacro tempio, invece, non ne vuole sapere e finge di volerci ossequiare a una vecchia regola toscaniniana. E noi siamo con lei, tutta la vita: ma è troppo facile improvvisare un parallelo tra il “palazzo” e un pubblico semplicemente diverso. La verità è che forse sì, La Scala è ancora uno specchio pur deformato del Paese: è cambiata, va globalizzandosi, il pubblico con essa. Ma questo non accade da oggi: accade da un sacco di tempo. Da una parte è facile convenire che flash e maleducati andrebbero presi a sonore pedate: il difficile è non accorgersi che si rischia, poi, di ritrovarsi il teatro vuoto. Come un’Italia senza Europa, senza mercati, senza mondo. Si era abituati a sedicenti vip che venivano divisi per gironi d’importanza, a rassegne facciali di chirurgia estetica, a stormi plananti di giornaliste che porgevano microfoni, più in generale a un circo politico-mondano che plaudiva la foto del proprio status. Una mazzata decisiva l’ha data il governo Monti: più o meno dal 2011 ha cominciato a farsi largo un pubblico più indecifrabile, tra il sobrio e il sottotono, apparentemente più signorile ma concretamente più ignorante della materia e dei modi: gente che applaude, applaude sempre, anche tra un’aria e l’altra e persino tra un recitativo e l’altro. Giapponesi e americani e buzzurri a parte – che sono sempre di più, comunque – la Scala appartiene ormai a quelle banche che in teoria l’occupano già da una vita. Basta scorrere l’Albo dei Fondatori: a parte quelli di Diritto (tipo lo Stato) l’unico Fondatore pubblico, in gerenza, resterebbe la Provincia: che in teoria è stata appena abolita. Tra i fondatori privati permanenti, invece, eccoti Cariplo, Banca Popolare di Milano, Intesa San Paolo, Banca del Monte di Lombardia, Generali, più altri imbucati storici tipo Pirelli, Fininvest e Tods. Non parliamo del consiglio di amministrazione, qui sciorinato parzialmente: Ermolli-Micheli-Passera-Ponzellini-Scaroni. E i ministri, anzi “le presenze istituzionali”? Nel 2011 erano Ornaghi-Cancellieri-Passera-Giarda eccetera, coi politici di vecchio conio che non se li è filati nessuno. Sul palco reale in compenso sedevano il presidente del Consiglio e della Repubblica, Monti e Napolitano: quest’anno nessuno dei due. La nuova Italia tecnica e finanziaria in compenso era in platea: compiaciuta, bella in tiro, maleducata senza saperlo. Già nel 2012 gli uomini delle istituzioni erano calati di numero, e, come sarà nel 2013, applaudiva e fischiava a caso. A forza di levar lustrini si era ormai quasi all’opaco, allo smorto, la serie b di tutto. Sino al 7 dicembre scorso, con tanti banchieri ma soprattutto prodotti derivati. È il tempo dei flash e dei ritardatari vestiti sobri, signore dabbene a cui squilla uno svergognato cellulare durante un’aria mistica, il tempo degli sgranocchiatori di caramelle, degli orologetti al quarzo, gente che fa casino sfogliando il programma, parlicchia, parcheggia il cappotto sulle ginocchia. E allora forza Barenboim, che s’incazza con la signorina col flash. E abbasso Pereira, che stende la passatoia a gente che spende 2.500 euro per un biglietto e ha pure la faccia di arrivare in ritardo. Viva i parolai, piuttosto, e abbasso i contabili. Viva la vecchia Italia, che tanto è morta e sepolta: l’epitaffio, giustamente, lo merita in musica.