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 2014  dicembre 19 Venerdì calendario

Marissa Mayer, la Lady Yahoo! finita nei guai. Giovane, energica, ingegnere, scelta per rilanciare l’immagine del sito, rischia di andarsene travolta dai suoi errori

Marissa Mayer, in questi anni, ha avuto due problemi. Primo, il pubblico di non esperti tendeva a confonderla con Sheryl Sandberg; un po’ per l’allitterazione, un po’ perché Sandberg è capo operativo di Facebook nonché autrice di Lean in, bestseller femminista di lusso. Secondo, perché Mayer è amministratore delegato di Yahoo! e non di Google. O di una delle altre tre Big Four, Facebook o Amazon o Apple, forse la compagnia che preferirebbe. Secondo Nicolas Carlson, autore del nuovo libro Marissa Mayer and the fight to save Yahoo!, la trentanovenne protagonista «tende a paragonarsi a Steve Jobs».
Negli anni Novanta, Yahoo! ha inventato l’oramai gigantesco e cannibalistico mercato della pubblicità online. È stata la numero uno della Silicon Valley, si è espansa in mille rivoli, è stata superata da ex startup che si dedicavano a perfezionare una singola funzione internettara. Craiglist nei piccoli annunci, eBay nelle vendite online. Soprattutto, Google come motore di ricerca. E poi Facebook, che ha di nuovo cambiato tutto, creando un nuovo mondo e sostituendo Yahoo! come homepage preferita dell’America e di parte del pianeta. Mentre Yahoo! diventava una compagnia in declino e non più ganza. E, infierisce Carlson, «nella Silicon Valley il prestigio e i grandi soldi arrivano con i prodotti cool». Per esserlo di nuovo, avevano pensato a Mayer. Giovane, energica, ingegnere, si era occupata dell’interfaccia utenti del motore di ricerca Google, era già multi-multimilionaria, cercava nuove sfide. E – capita alle donne ingegnere, capita a Google, anche – aveva perso una guerra aziendale ed era finita a Google Maps. Mayer andò a Yahoo!, nel 2012, tra gran battage mediatico e infinite riflessioni più o meno stucchevoli sulla giovane donna ceo, chief executive officer. E un investimento interessante, il 40% di Alibaba, «la Google cinese, praticamente Google, Amazon e eBay combinate»; e per gli investitori americani «il modo migliore per scommettere su Alibaba era investire in Yahoo!». Una garanzia per Mayer, che in questi anni ha reinvestito, diversificato, reinventato, con risultati spesso non buoni.
Carlson dà la colpa al «paradosso nello stile manageriale di Mayer: quando si tratta di prodotti tecnologici, è ossessionata da dati e statistiche. Ma quando si tratta di media, prende decisioni di pancia». Come quella sull’attrice e autrice di libri di cucina peggio che vegana Gwyneth Paltrow. Mayer, secondo una fonte di Carlson, rifiutò di ingaggiarla per Yahoo Food «perché non era andata al college». Forse non è andata così. Forse Mayer, come altre, era disturbata dal gattamortismo new age di Paltrow e provava un certo fastidio a pensarla in una trasmissione di cucina, a dire cose strane contro i carboidrati. Le era più simpatica Katie Couric, ex anchorwoman tv di grande successo, forse inadatta ai nativi digitali, assunta per 5 milioni di dollari l’anno, risultata un grande insuccesso.
Anche se, col senno di poi, ora che Yahoo! va molto male e la colpa è di Mayer, rivitalizzarla era quasi impossibile. Non è ancora successo, nella storia della Silicon Valley, che una compagnia bollita ridiventasse croccante o cool. È difficile, quando si arriva in un’azienda-zombie, abbattere cattive abitudini e pratiche autolesioniste. Per dire: l’ing. Mayer voleva ampliare l’offerta per gli smartphone; scoprì che a Yahoo!, di ing. dedicati, ce n’erano solo 60, contro i 2 mila di Facebook. Ora forse, dopo molti errori e una campagna per farla fuori, andrà via da Yahoo!, ma non pare solo una questione di manager femmine, proprio no.