Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 19 Venerdì calendario

Nessuno vuole offendere Kim Jong-un. Così Columbia TriStar ha bloccato The interview, un film costato 64 milioni di dollari tra produzione e promozione. Intanto gli hacker coreani si sono dati alla pazza gioia e hanno sventrato i server della multinazionale, rivelando mail private, note riservatissime, sceneggiature in lavorazione, sequenze di nuovi film già pronti. E la Casa Bianca ha fatto sapere di essere preoccupata per il rischio di attentati

«Che voi americani possiate annegare nel sangue e negli escrementi» canta la voce angelica di una soldatessa nordcoreana nel film “The Interview”, ma per ora, e fortunatamente, l’America del cinema è affogata soltanto nell’imbarazzo e nel ridicolo, costretta a ritirarlo dalla circolazione per timore di rappresaglie coreane.
In una storia ricchissima di film e documentari usati come strumenti di propaganda, o di furiose reazioni governative scatenate da pellicole giudicate offensive, come il grande “Borat” che dileggiava ferocemente il Kazakhstan, la saga di questo che i critici americani concordano nel definire una farsaccia da avanspettacolo è una prima assoluta. Mai una big di Hollywood, la Columbia TriStar appartenente alla Sony giapponese, aveva bloccato l’uscita di un film costato 44 milioni di dollari nella produzione e già 20 milioni nella promozione a tappeto, si era arresa per timore di offendere un despota come Kim Jongun e per l’attacco di hacker che ne avevano sventrato i server, rivelando mail private, note riservatissime, sceneggiature in lavorazione, sequenze di nuovi film già pronti. E bombe vere, stragi di spettatori che avessero osato andare nella sale dove “The Interview”, l’intervista sarebbe dovuta essere proiettata nella settimana di Natale.
La guerra, che i pompieri anti hacker chiamati dalla Sony per spegnere il cyberincendio tendono ad attribuire ai nordcoreani, era cominciata la mattina del 24 novembre. Quando gli impiegati della Sony erano arrivati al lavoro nel palazzo di Culver City, i monitor dei loro computer si erano popolari di teschi rossi sogghignanti, naturalmente rifiutando di accedere poi ai dati. Era chiaramente un virus, arrivato non si sa come oltre ai deboli frangifuoco della sicurezza online. Gli scassinatori della Sony avevano portato via almeno un terabyte, mille miliardi di byte, abbastanza per contenere 300 ore di video e milioni di file di testo.
Valanghe di comunicazioni private e di giudizi imbarazzanti si sono riversati in Rete, attraverso il “Sonyleaks”. La lite fra i due protagonisti maschili del film, la Sony che paga infinitamente meglio i proprio dipendenti e dirigenti maschi, rispetto alla femmine di pari categoria, che i boss detestano l’attore Adam Sandler («Continuiamo a pagare uno finito che produce solo patacche»). I codici fiscali di Sylvester Stallone e di Judy Apatow erano diventati pubblici, insieme con i dettagli privati, i precedenti penali, le note di servizio, i problemi di salute e le reprimende di 31 mila dipendenti.
Ma se questo materiale era ancora innocuo mangime per le stalle del gossip, oltre alla violazione brutale della privacy, era la minaccia di compiere attentati contro le sale cinematografiche per Natale, per la settimana di massimo affollamento e incassi, quella che ha scosso non soltanto la Sony, ma la Casa Bianca.
Il governo di Pyongyang nega di avere il dito in questa operazione, anche se l’offesa è grande, per un film che ridicolizza il torvo regime del Nord e finisce con l’esplosione della testa del dittatore, come un cocomero. Sony ha bocciato l’uscita, per ora, segretamente riservandosi di diffonderlo più tardi forse online, per sfruttare l’immensa pubblicità e recuperare qualche milione. E le sei principali catene di sale cinematografiche hanno tolto anche i poster pubblicitaria dagli ingressi. Mentre un’altra big del cinema, spaventata, ha cancellato la lavorazione di un fiction spionistica, intitolata “Pyongyang”, con Steve Carell e diretta da Gore Verbinski, perché era ambientata in Nord Corea. Oggi, sarebbe probabilmente bloccato anche il James Bond della “Morte può attendere”.
Un filmaccio, l’equivalente americano di un pessimo panettone cinematografico, è diventato il monumento alla vulnerabilità dei grandi e dei piccoli alle azioni dei cybertarli e alla difficoltà di risalire alle fonte. La suscettibilità del paffuto giovanotto che ha ereditato il trono dell’eremita è ben nota, ma non sarebbe il primo né il solo a respingere film ostili. Da quando il cinema è diventato veicolo esplicito o implicito di propaganda politico, il rischio di reazioni furiose è cresciuto.
Nel mondo arabo, e soprattutto in Iran, fu vietata la diffusione della “Schindler’s List” di Spielberg perché accreditava la Shoah e lo sterminio degli ebrei, una panzana sionista, secondo Teheran. Il governo kazako fece passi ufficiali all’Onu contro la parodia di Sasha Cohen, “Borat” anche se il film era stato girato in realtà in Romania. La BBC ha ricordato come il Cremlino protestò violentemente, dopo averlo vietato, contro “Il Cacciatore” di Michael Cimino, per le sequenza di tortura con la roulette russa, attribuite ai valorosi compagni vietcong.
La novità, nel caso della “Intervista”, è la facilità con la quale si possono ricattare anche grandi conglomerati come la Sony, la loro vulnerabilità a chi voglia impedire la produzione di un film attraverso la semplice violazione dei server, con minacce di stragi contro gli spettatori. Ai quali, se proprio vogliamo cercare un lieto fine hollywoodiano, sarà risparmiata per ora la visione di un film che la Sony non avrebbe mai dovuto produrre.