Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 19 Venerdì calendario

I castristi italiani, da Vattimo a Zucchero, da Feltrinelli a Carla Fracci. Cinquant’anni di fascinazione, di seduzione. Ed erano legioni di «pellegrini politici» rimasti abbacinati da un comunismo così diverso dalla tetraggine dei papaveri dell’Est. Il socialismo del Che e delle «tierras coloradas», così romantico, come spiegava Alberto Ronchey

Erano rimasti davvero in pochi, ora che il líder máximo dell’Avana non era più il campione hemingwayano tutta vitalità rivoluzionaria e virilità combattente. O che se ne era andato Gabo, Gabriel García Márquez, il grande confidente e fiancheggiatore di Fidel. Pochi e sparuti, in Italia, gli ultimi apostoli dell’epopea cubana, i cantori della Sierra Maestra avvolta nelle fiamme della guerriglia, ora mestamente spente.
Gianni Vattimo, sempre alla ricerca di qualche dittatore da adorare (anche Chavéz non c’è più). Oppure Gianni Minà, superato negli ultimi tempi in devozione filocastrista dai documentari di propaganda di Michael Moore o dalle interviste-panegirico di Oliver Stone: ore e ore di monologhi senza interruzioni, domande, problemi, fastidi. Oppure Zucchero, nel senso di Zucchero Fornaciari che è andato all’Avana per un bel concertone. E quando Amnesty International gli ha chiesto se non era il caso di dire una parola sui dissidenti sbattuti in carcere, lui ha risposto «non sono venuto qui per occuparmi di politica», ma intanto si è regalato una photo-opportunity con Fernando Royas, l’uomo che per conto del regime cura meticolosamente l’azione della repressione più spietata. Il sole tropicale del socialismo caldo e morbido si era già appannato. Cinquant’anni di fascinazione, di seduzione. Ed erano legioni di «pellegrini politici» rimasti abbacinati da un comunismo così diverso dalla tetraggine dei papaveri dell’Est. Il socialismo del «Che» e delle «tierras coloradas», così romantico, come spiegava Alberto Ronchey con «palmizi, manghi, tutt’intorno la natura stupenda, l’utopia in un clima perfetto, con le mense comuni, senza valuta, un’acqua straordinaria color smeraldo e la spiaggia bianca come lo zucchero».
Frotte di intellettuali che vedevano in Cuba il nuovo paradiso. Norman Mailer che cantava la rivoluzione castrista; «era come se il fantasma di Cortez fosse apparso nel nostro secolo cavalcando il cavallo bianco di Zapata». E Jean-Paul Sartre che tesseva le lodi sovrumane del grande condottiero, capace addirittura di oltrepassare le barriere della natura costrittiva: «Castro è quello che può mangiare più di tutti e digiunare per più lungo tempo. Essi superano i limiti del possibile». E Angela Davis che nei campi di Cuba vedeva l’idillio del comunismo bucolico, dove la fatica era stata abolita per decreto rivoluzionario. «Era come se ogni robusto abitante dell’Avana che si recava nei campi stesse andando a un gioioso carnevale». Era una fascinazione cui sembrava difficile resistere per chi non faceva altro che cercare il nuovo fuoco che avrebbe riscaldato l’ardore rivoluzionario. In Italia uno studioso misuratissimo come Paolo Spriano si domandava se a Cuba il socialismo non potesse «trasformarsi in un ritmo ballabile». Saverio Tutino, che poi avrà modo di correggere le sue impressioni fideistiche su Cuba, scriveva che decine di migliaia di persone la domenica andavano volontariamente a «spianare terreni»: in realtà erano cittadini costretti a qualcosa che assomigliava ai «lavori forzati». Molti, come Tutino, cambieranno opinione. Italo Calvino sentiva il richiamo della terra nel suo incantamento per la Cuba castrista. Ma quando il regime cominciò a perseguitare lo scrittore Heberto Padilla, Calvino firmò un appello a suo favore e il regime per punizione mise al bando tutti i suoi libri, a cominciare dal «Visconte dimezzato». La pratica del mettere al bando i libri era una prerogativa del regime dell’Avana. Perfino Giangiacomo Feltrinelli, che pure aveva contribuito con i suoi gesti e la sua casa editrice a diffondere nel mondo il messaggio infuocato della guerriglia castrista, era rimasto sconcertato quando Carlos Franqui, che aveva seguito Castro nella Sierra Maestra, era stato costretto all’esilio. O anche K.S.Karol, e Simone de Beauvoir. Ma la fascinazione per la dittatura cubana non conosceva soste tra gli intellettuali. E tra la gente di spettacolo.
Gina Lollobrigida certo, che ha descritto la fisicità di Fidel Castro, «così squisito, così soft, con quelle maniere da gentiluomo, quelle mani così belle». Ma anche Carla Fracci, che non ha mai voluto venir meno ai suoi princìpi: «Castro è un dittatore, lo so. Ma io non dimentico che nei Paesi socialisti il balletto gode di grande considerazione». O Raffaella Carrà che non volle che in una puntata di Domenica In venisse presentato un libro dello scrittore Valladares messo in carcere dalla dittatura. «Mai farò propaganda anticubana», disse quasi indignata. Ora l’astro castrista è diventato sempre più buio. Un capitolo della guerra fredda si sta chiudendo. E tra i «pellegrini politici» non c’è più neanche il grande Claudio Abbado, determinato a portare la grande musica all’Avana, malgrado le prigioni colme di dissidenti che si lasciano morire negli scioperi della fame. Un’epoca al tramonto, oramai.