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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

Dopo sette anni e quattro processi, Alberto Stasi è stato condannato a sedici anni per il delitto della fidanzata Chiara Poggi, uccisa a sprangate, il 13 agosto 2007, nella sua villetta a Garlasco in provincia di Pavia. Lui, che in carcere per ora non ci finirà, annuncia di voler andare avanti per dimostrare la sua innocenza, mentre i suoi avvocati parlano di «sentenza ispirata al principio di poca prova, poca pena»

Per la prima Corte d’assise d’appello di Milano, Alberto Stasi ha ucciso la sua fidanzata Chiara Poggi il 13 agosto 2007 a Garlasco. La sentenza è stata letta ieri alle 19,30 dalla presidente Barbara Bellerio, dopo un processo di rinvio durato 14 udienze e quasi 7 ore di camera di consiglio. La condanna è a 16 anni di carcere più 1 milione di euro da risarcire alla famiglia: 350 mila euro a ciascuno dei genitori di Chiara, Rita e Giuseppe, e 300 mila a suo fratello Marco. All’imputato, che si è sempre proclamato innocente, non sono state riconosciute le attenuanti generiche ma è stata esclusa l’aggravante della crudeltà e la scelta del rito abbreviato ha garantito lo sconto di un terzo di pena. Alberto è uscito dall’aula a testa bassa mentre i genitori di Chiara hanno abbracciato il loro avvocato Gian Luigi Tizzoni, commosso almeno quanto loro per quello che definisce «un risultato per il quale io e i nostri consulenti abbiamo lavorato sette anni. Volevamo verità, oggi abbiamo avuto risposte» [tutti i giornali di giovedì 18 dicembre].
 
Quella di ieri è la quarta sentenza, al termine di altrettanti processi, che Alberto Stasi ha dovuto ascoltare per lo stesso reato: omicidio. Le prime due furono di assoluzione; la terza, emessa dalla Cassazione, le ha annullate con l’invito ad approfondire le indagini, segnatamente alcuni indizi «trascurati». [Vittorio Feltri, Il Giornale 17/12/2014]
 
Alberto Stasi, «bianco in volto, in piedi (…), ricurvo nel pullover verde, ascolta la sentenza che lo condanna a 16 anni per omicidio volontario. Resta immobile, una pietra. Accenna un movimento del capo verso sinistra, dove siede il decano del suo pool di avvocati. Quel professor Giarda, ora ammutolito, che per due volte l’ha tirato fuori dalle sabbie mobili di un destino che forse attendeva solo di compiersi (…). [Paolo Berizzi, Rep 18/12/2014]
 
Cinque le «prove» che hanno portato alla condanna di Stasi: scarpe pulite nonostante avesse camminato sul sangue di Chiara, Dna di Chiara sui pedali della bicicletta, impronte digitali di Alberto sul dispenser del sapone, graffi, rapporti di confidenzialità tra vittima e assassino. «L’ultimo punto è la premessa che ha consentito di circoscrivere i sospettati a una cerchia ristretta. La ragazza era a casa da sola, per la prima volta, in pieno agosto, con la città deserta. Era ossessionata dai ladri, tanto che teneva sempre inserito l’allarme perimetrale. Eppure, visto che non ci sono segni d’effrazione, ha aperto la porta alle 9 del mattino, indossando solo un corto pigiama estivo. Stasi dice di aver trovato il cadavere alle 13,45, ma in realtà non è mai entrato in casa a quell’ora: l’ha fatto quattro ore e mezza prima, quando ha ucciso Chiara, indossando altre scarpe che poi ha gettato. Le Lacoste che calzava quando si è presentato ai carabinieri avevano la suola pulita: impossibile, con tutto il sangue che c’era. Le probabilità di farlo sono infinitesime, una su 13-16 miliardi, hanno calcolato i periti». [Claudio Bressani, Sta, 18/12/2014]
 
Anche i giornalisti di “Repubblica” avevano percorso gli ultimi passi di Chiara nella casa di Garlasco. «Una casa né grande né piccola, ma con un corridoio stretto, cosparso – così dimostravano le foto della Scientifica – di sangue. Altro sangue era davanti alla porta a soffietto della cantina. Sangue sui gradini. Chiara era stata trovata in fondo alla scala, a testa in giù. Il sangue, copioso, le aveva coperto il volto, e intriso i capelli come un unguento: “Come ha fatto Alberto a non sporcarsi di sangue, ha forse volato?”, aveva domandato commossa la madre [Piero Colaprico, Rep 18/12].
 
Altro forte indizio contro Stasi, la famosa «bicicletta nera da donna» vista da una testimone davanti alla casa di Chiara quel 13 agosto 2007. «Nell’appello bis il colpo di scena: Gian Luigi Tizzoni, l’avvocato della famiglia Poggi, scopre che c’è qualcosa che non quadra sui pedali delle biciclette di Alberto. Quella nera da donna li ha tutti e due puliti, su uno di quella bordeaux sequestrata subito dopo il delitto c’è invece Dna di Chiara. Tizzoni ipotizza uno scambio. Nel dibattimento l’attenzione si sposta soltanto sulla bici bordeaux. Tutti testimoni e i documenti confermano: la bicicletta bordeaux ha pedali che non sono quelli originali. Quindi l’ipotesi d’accusa è che qualcuno abbia smontato da un’altra bicicletta i pedali sporchi del Dna di Chiara per rimontarli su una bici che in quei giorni, subito dopo il delitto, non era sott’accusa perché non «nera da donna» come aveva rivelato la testimone. Non gli originali Union in acciaio ma altri, Wellgo in alluminio, segno che sono stati sostituiti, togliendoli dalla bici nera utilizzata e montandoli sull’altra che nessuno aveva visto [Giusi Fasano, Cds, 18/12/2014].
 
E ancora: ci sono due impronte di Stasi sull’erogatore del sapone liquido in bagno, mentre sul flacone c’era Dna di Chiara. Alberto ha lasciato le tracce lavandosi le mani dopo aver ucciso la fidanzata. L’assassino aveva le mani sporche, lo dimostrano le quattro ditate insanguinate impresse sul pigiama di Chiara. [Claudio Bressani, Sta, 18/12/2014] Laura Barbaini, «pubblico ministero che ha sempre amato il silenzio, è una fissata della “sequenza logico-cronologica”, come sa bene la sua polizia giudiziaria. Fa mettere ogni “rapporto” in ordine di tempo e, da lì, li legge e rilegge per capire che cosa è possibile e che cosa no. Stasi – spiega dunque nella requisitoria il pm – quando uccide Chiara, “preordina la messa in scena”. Subito dopo aver trascinato il corpo esanime in cantina, “con le mani sporche di sangue, a passo sicuro si dirige verso il bagno, che conosce” e lì, usando l’anulare sul flacone del sapone (e quell’impronta digitale, altra prova scientifica, resta) “si lava e lascia la casa dell’omicidio”». [Piero Colaprico, rep 18/12/2014]
 
 
Infine: «due sottufficiali dei carabinieri hanno notato graffi sull’avambraccio sinistro di Alberto: i segni della colluttazione con la vittima che ha cercato di difendersi. Infatti c’era Dna Y, maschile, sulle unghie di lei. [Claudio Bressani, Sta, 18/12/2014]
 
Il rapporto di coppia con Chiara attraversava una fase di «criticità», forse legata anche alla sua ossessione per la pornografia. [Claudio Bressani, Sta, 18/12/2014]
 
Mattina di mercoledì 17 dicembre, «tre minuti dopo mezzogiorno. La presidente della Corte: “Signor Stasi, se lei ha delle dichiarazioni da fare le faccia...”. Eccolo. Si alza in piedi. La voce flebile. “Sono quasi otto anni che sono sottoposto a questa pressione, al centro di questo caso. È accaduto a me e non ad altri. Perché?”. Nomina Chiara solo una volta. Per difendersi. “Si sono dimenticati che ero il suo fidanzato... Sono andati avanti a mettermi in mezzo. Sono persino andati a parlare con il mio pediatra...”. È il momento più drammatico. Lo Stasi che mimetizza e dissimula, l’esperto di carte che si è studiato tutto il processo, ogni riga di ogni perizia, mette sul tavolo la carta bagnata della disperazione. “Non voglio accusare nessuno... però mi chiedo perché hanno cancellato il mio alibi nel pc? (il riferimento è ai tempi di lavorazione della tesi di laurea: che però come alibi in realtà aveva anche retto, ndr) E perché quest’estate sono stato accusato di avere sostituito i pedali della bicicletta?”». [Paolo Berizzi, Rep 18/12/2014]
 
«A mano a mano che leggevo i risultati delle evidenze scientifiche, mi convincevo che la verità non poteva non emergere. E questo mi ha dato forza». Diceva così, Stasi, dopo la prima assoluzione. Dicembre 2009. E poi, dopo l’appello del 2011: «Sono contento che un altro giudice, il secondo, abbia deciso che io non c’entro con la morte di Chiara». Gli avevano consigliato di proferire parole sfumate, di questo tenore: «Assolto, sì. Ma questa non è una vittoria. Qui non ci sono né vinti né vincitori. C’è Chiara uccisa, e ci sono io, innocente». Così avevano deciso i giudici in primo e secondo grado. E prima ancora il gip che, dopo quattro giorni in carcere, settembre 2007, l’aveva tirato fuori. [Paolo Berizzi, Rep 18/12/2014].
 
«Dallo studio Giarda, difensori di Stasi, che sino al 2014 sono riusciti a imbrigliare le indagini con varie opposizioni, ieri parlano di “sentenza ispirata al principio di poca prova, poca pena». Poca pena? L’accusa aveva chiesto 30 anni partendo dalla richiesta di ergastolo. La corte, presieduta da Barbara Bellerio e con Enrico Scarlini, ne ha dati 16, applicando però la pena per l’omicidio (24 anni) e scontandola di un terzo, come impone il rito abbreviato. E con una sentenza simile si va in carcere. Non subito. Per entrare in cella o no, Stasi aspetterà che la parola torni alla Cassazione: nessuno nel frattempo lo arresta [Piero Colaprico, rep 18/12/2014].
 
Sedici anni «paiono pochi a tutti se è stato lui. Niente aggravanti per la crudeltà di quel gesto sembrano addirittura incomprensibili. L’accusa aveva chiesto 30 anni, ne incassa quasi la metà. Gennaro Cassese, il capitano dei carabinieri, che ha fatto tutte le indagini è in aula e si capisce che non è soddisfatto: “Sedici anni... Ho visto io cosa è stato fatto a quella ragazza...”.  Adesso arriveranno le motivazioni della sentenza. Si capiranno le disquisizioni giuridiche. Non si saprà mai se i giudici popolari si sono divisi come nei migliori film americani. Ma di sicuro si capisce e basta guardarlo in faccia che per Alberto Stasi adesso inizia il momento peggiore». I giudici non credono alla sua innocenza «ma non infieriscono, perché a questo punto 16 anni sono davvero pochi. Ma bastano a placare il desiderio di giustizia dei famigliari di Chiara, le altre vittime di questa storia infinita persa in perizie e controperizie» [Fabio Poletti,  Sta, 18/12]

Vittorio Feltri, sul “Giornale”: «Alberto Stasi come Annamaria Franzoni: colpevole, ma solo un po’. Dopo due sentenze assolutorie, in primo e secondo grado, il giovane commercialista di Garlasco è stato condannato a 16 anni di reclusione per avere ucciso la fidanzata Chiara Poggi, nel 2007. Siamo allibiti. La Corte d’appello di Milano ha ribaltato i giudizi precedenti pur basandosi sugli stessi indizi che altri tribunali avevano considerato insufficienti a infliggere una pena per omicidio. Sette anni durante i quali gli investigatori hanno indagato, ordinato e vagliato perizie più o meno contraddittorie; sette anni e quattro processi per emettere una sentenza che, se sono buoni gli elementi usati dall’accusa, doveva essere pronunciata almeno cinque anni orsono. Elementi, peraltro, smontati sistematicamente dalla difesa. C’è qualcosa di molto strano nel verdetto. Abbiamo citato la mamma di Cogne alla quale i giudici, per avere massacrato il figlioletto, rifilarono 15 anni, relativamente pochi se si tiene conto della gravità del delitto. Lo stesso discorso vale per Stasi. Sedici anni anche a lui per avere fatto fuori una ragazza nel modo noto, a sprangate. Entrambi i casi si sono chiusi senza prove e con indizi sulla cui consistenza non abbiamo dubbi solamente noi, ma anche (per Stasi) i giudici dei primi due procedimenti. Significa che la colpevolezza del giovanotto era assai difficile da accertare. Da quando un genio modificò il codice di procedura penale, abolendo l’insufficienza di prove, il compito delle toghe è diventato arduo. A ogni costo devono pronunciarsi a favore o a sfavore dell’imputato. Tertium non datur. La formula dubitativa, cioè l’insufficienza di prove, permetteva invece una soluzione più equa, in determinate circostanze. Si dice che le sentenze si rispettano e non si discutono. Storie. Alberto Stasi è obbligato a beccarsi la condanna» [Vittorio Feltri, Il Giornale 18/12/2014].

Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera: «Visto di spalle, da solo in piedi in tribunale – senza il papà che sempre lo accompagnava – in attesa dei giudici per la sentenza, Alberto Stasi fa quasi pena. Il maglioncino verde da studente contrasta con i capelli biondi che cominciano a farsi radi sulla nuca: un giovane invecchiato anzitempo, verrebbe da pensare. (…) Difficile farsi un’idea precisa di lui perché in questi sette anni di indagini e processi tranne una volta (da Matrix ) non è mai andato in tv, tranne una volta (a questo giornale) non ha mai concesso interviste; e, in entrambe le circostanze ha risposto in modo del tutto impersonale, una lunga serie di belle frasi prevedibili che scorrevano via come acqua, probabilmente studiate a tavolino con l’avvocato: «Sì, vado spesso a trovare Chiara al cimitero». «Sì, quando tutto sarà finito i rapporti con i suoi genitori spero torneranno normali». E anche in tribunale in questi sette anni praticamente non lo si è visto, poiché le udienze sono sempre state a porte chiuse. Ha accortamente condotto una vita discretissima, non abita più nella casa paterna ma ci torna spesso per andare a trovare la madre rimasta sola dopo la morte del padre; ha passato il primo esame di commercialista e lavora in uno studio milanese. Un uomo intelligente, un uomo sfuggente. Un assassino, ha deciso ieri il tribunale». [Isabella Bossi Fedrigotti, Cds 18/12/2014]
 
«Non me l’aspettavo questa condanna. Ma voglio andare avanti a dimostrare la mia innocenza. Prima che a me lo devo a Chiara e a mio padre che ha sempre creduto in me» (Alberto Stasi). [Fabio Poletti, Sta, 18/12/2014]
 
La memoria collettiva tiene impressa una foto: Alberto a braccetto con la mamma di Chiara, il giorno del funerale. [Paolo Berzzi, Rep 18/12/2014]
 
Rita Preda, la mamma di Chiara, in aula non ha mai guardato Alberto. Nemmeno il giorno della sentenza: «Ho ascoltato. E basta». Dopo la condanna di Stasi ha detto che sarebbe andata da Chiara, al cimitero, «con uno spirito diverso. Le porterò una farfalla, (…) ho trovato al cimitero moltissime farfalline, qualcuno le portava. Da una, due, ne sono arrivate altre. Tanti sconosciuti portano fiori, e magari mettono una farfalla, di plastica, di metallo, di stoffa. Sono diventate un simbolo, le raccolgo, le pulisco, gliele porto, sono le sue (…)Chiara era ricca di vita, sorrideva sempre. Le accenderò un cero, le darò un bacio e le dirò “brava, ce l’hai fatta ad avere giustizia”». [p. col., Sta 18/12/2014]