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 2014  dicembre 17 Mercoledì calendario

A 50 anni dal lancio del primo satellite, il San Marco, l’Italia ha abbandonato le basi in Africa. Una storia finita in lite tra accademici

Samantha Cristoforetti dalla cupola della stazione spaziale (Iss) osserva nei suoi periodici passaggi sull’Equatore due piattaforme che davanti alle coste del Kenya testimoniano le origini dell’Italia nello spazio diventate oggi, purtroppo, materia di scontri giudiziari. E con un tweet diffuso lunedì dalla Iss ha ricordato il primo satellite italiano San Marco lanciato 50 anni fa. Il San Marco 1 partiva dalla base americana di Wallops Island per addestrare i tecnici italiani a continuare poi i lanci dalle due piattaforme che dal 1967 entravano in attività. La loro nascita era il frutto della collaborazione tra l’Università La Sapienza di Roma dove insegnava il professor Luigi Broglio a capo del progetto San Marco e l’Aeronautica Militare di cui lo stesso professore era ufficiale.
L’impresa temeraria si materializzava grazie al piano elaborato da Broglio e accettato con entusiasmo dalla Nasa al punto da regalare i razzi Scout per spedire in orbita i satelliti in cambio dei dati scientifici raccolti nell’alta atmosfera.
Non solo. La Nasa affidò al team italiano pure il lancio di quattro satelliti astronomici e convinse gli inglesi ad aggiungerne un quinto. I «San Marco» italiani furono invece quattro, l’ultimo dei quali si sollevò nel cielo equatoriale in una notte piena di stelle nel marzo 1988. Dieci lanci, dieci successi e una fama internazionale. Broglio riuscì a materializzare il suo piano grazie all’appoggio politico di Amintore Fanfani e di Enrico Mattei, che regalò la piattaforma Santa Rita diventata il centro di controllo. La piattaforma più grande, battezzata San Marco e da cui partiva il razzo Scout, veniva ceduta dalla Nasa al costo simbolico di un dollaro. Ma dal 1988 la base è avvolta dal silenzio.
«Periodicamente interveniamo nella verniciatura per impedire che la salsedine le distrugga – spiega Barbara Negri responsabile all’agenzia spaziale Asi del coordinamento tecnico-scientifico —. Alcune gambe sono state cementate, gli impianti sono vecchi e dunque le piattaforme sono inutilizzabili al 90 per cento». Rimangono invece ancora vive polemiche e liti giudiziarie tra accademici, cioè tra i protagonisti di allora e l’Università La Sapienza. Cessate, per fortuna, quelle tra l’Asi e la stessa Università. «Nel dicembre scorso si è raggiunto un accordo che ha posto fine ad ogni vertenza – precisa Barbara Negri —. L’università rimane proprietaria delle basi mentre la gestione delle attività è dell’Agenzia. Anzi adesso abbiamo allo studio un programma che riguarda però solo l’utilizzo delle stazioni installate nel campo base sulla terraferma». Qui lavorano duecento kenyoti guidati da 15 tecnici di Telespazio e Vitrociset seguendo tre satelliti della Nasa, l’italiano Agile, i lanci dei vettori europei Ariane e anche dei cinesi.
Ma all’Università, comunque, non tutti sono d’accordo nell’abbandonare le piattaforme. «Qualcosa si può fare ed è colpevole non utilizzarle – dice Marcello Onofri, direttore del cento di ricerca aerospaziale della Sapienza —. Quindi stiamo definendo una proposta per l’Asi per lanciare razzi sonda scientifici».
Diplomatica è la risposta dall’Asi. «L’ipotesi si può considerare anche se gli stessi razzi potrebbero partire dalla terraferma – nota Barbara Negri —. Per il momento resta tuttavia la preoccupazione per la sicurezza a causa delle minacce degli integralisti somali».