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 2014  dicembre 04 Giovedì calendario

Dall’inchiesta romana Mafia Capitale emerge un sistema di complicità tra politica e criminalità mai così strutturato e capillare. Ora la magistratura dovrà fare il suo lavoro, ma anche i partiti devono fare pulizia al loro interno. Ed è impressionante come in Campidoglio sia scoppiato il terrore: «Ora tocca a me?»

Corriere della Sera
Due giorni prima della «retata» di Roma il procuratore Giuseppe Pignatone aveva lanciato un preciso monito. Intervenendo alla conferenza del Partito democratico aveva detto: «Il rischio più alto che corriamo è quello del contatto fra il mondo criminale e quello politico, con un aumento esponenziale della pericolosità dell’uno e dell’altro». In realtà, leggendo gli atti giudiziari dell’inchiesta sull’associazione per delinquere di stampo mafioso che farebbe capo all’ex estremista dei Nar Massimo Carminati, quel rischio sembra essersi già concretizzato. Lo sa bene l’alto magistrato e lo sanno soprattutto gli amministratori pubblici che si sono messi al servizio di chi lucrava su ogni appalto, su ogni emergenza, persino sulle calamità naturali come la neve.
Le indagini svolte a Roma sulle cosche locali non erano mai arrivate a scoprire un sistema di complicità tanto ben strutturato e soprattutto così invasivo. Neanche la ‘ndrangheta e la camorra, che pure hanno coltivato interessi economici perfettamente radicati sul territorio, avevano raggiunto un risultato tanto eclatante. E proprio questo dovrebbe far riflettere su quanto alto sia ormai il livello di permeabilità della politica. Ci sono uomini delle istituzioni sistemati nei posti strategici che hanno accumulato «tangenti» da centinaia di migliaia di euro individuando come interlocutori privilegiati gli imprenditori disponibili a pagare il prezzo più alto.
Assessori e consiglieri che impunemente hanno continuato ad amministrare la cosa pubblica, semmai spostandosi da un ufficio all’altro, da un incarico all’altro. Lo hanno fatto spesso utilizzando per i propri interessi funzionari altrettanto corrotti, disponibili a truccare  le carte pur di compiacerli e di soddisfare ogni richiesta in un intreccio illecito difficile da sciogliere. La soglia di tolleranza dei cittadini, che sgomenti assistono  al «sacco» delle città, sembra essere stata raggiunta. Adesso tocca ai leader di partito rassicurarli, cambiare gli uomini e i metodi, intervenire in maniera drastica. Sono moltissimi gli esponenti della destra e della sinistra che in queste ore chiedono alla magistratura di andare fino in fondo. Bene, è giusto che i pubblici ministeri svolgano verifiche e accertamenti senza subire alcun condizionamento. Ma il compito principale spetta alla politica, che deve guardare al proprio interno per rompere i vincoli illeciti e fare finalmente pulizia senza sconti o indulgenze. Per essere credibile, prima che sia davvero troppo tardi.

Fiorenza Sarzanini


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la Repubblica
Che faceva prima?, chiedo al “raccogli foglie” in tuta arancione. «Il ladro». E quanto tempo è stato in galera? «Ahò, io so’ Pelosi, quello de Pasolini», risponde l’operaio-giardiniere “evaso” da un’altra Roma, capelli a spazzola, l’aria da futuro dietro le spalle.
«So’ stato vent’anni in galera, in manicomio e anche in casa custodia, ma ancora mafioso non me l’aveva detto nessuno».
Ex detenuti, disabili, sbandati, i dipendenti della Cooperativa 29 giugno non sono abituati a ricevere le visite dei giornalisti e tuttavia non si nascondono per timidezza, ma perché si sentono umiliati. «Ci hanno arrestato presidente e vicepresidente. Pare che anche le segretarie in ufficio siano indagate. Io guadagno 920 euro al mese per pulire i giardini. Adesso che succederà? Gli italiani pensano che questo è un covo della mafia. Dobbiamo tornare a delinquere?». La signora che si è appena sfogata ci sta cacciando sullo stradone di periferia, fuori dai cancelli della Cooperativa, un complesso di prefabbricati bassi circondato da un muro di cemento: peggio di una caserma, meglio di una galera. Indossa un tailleur blu e un cappotto rosso e sembra sconvolta dall’emozione. «Di solito – ci dice Pelosi – quella è tutta un sorriso».
Anche Ignazio Marino in Campidoglio è sconvolto e si nasconde, ma per prudenza politica: «Sta ancora studiando le carte». Tutti qui studiano le carte ma già pensando alle altre carte, quelle del secondo tempo annunciato dal procuratore Pignatone: indizi di pena, ma anche mappa dell’aporia e molliche di difesa. «Ci sono ancora una ventina di nomi che devono saltare fuori», spiega l’ex capogruppo del Pd Francesco D’Ausilio. E aggiunge che «potrebbe toccare a chiunque. È come una roulette capricciosa. Chi può sapere cosa ha millantato al telefono quel Buzzi parlando col suo capo? Buzzi me lo ricordo, sempre presente a tutte le sedute del consiglio comunale. L’altro invece, il fascista mafioso, Carminati, quello non l’ho visto mai».
Oggi i politici romani vivono dunque nel presagio. Alle 16,43 le agenzie battono la notizia che un uomo è stato gambizzato in strada nel quartiere San Lorenzo. Non c’entra nulla, ma tutti vorrebbero sapere il nome perché anche nei saloni più solenni d’Italia l’atmosfera è carica di ioni negativi, quelli della suburra. «È come un film dell’orrore», mormora Luca Galloni il capo della segreteria di Mirko Coratti, il presidente dell’Assemblea capitolina che si è dimesso quando ha saputo di essere indagato. Giovane e tormentato, Galloni dice: «Buzzi a me neppure mi salutava. E l’altro, Carminati, è di quelli che io, solo per la faccia che ha, non l’avrei mai incontrato».
E Marino in clausura cosa cerca in quelle carte? Al terzo piano del Campidoglio lo chiedo a uno che gli è molto vicino ma non vuol comparire e neppure vuol farsi vedere insieme a noi: «Le avete lette voi? Ci sono così tanti omissis! Per tutti noi gli omissis sono come le sciarade della Settimana Enigmistica. C’è la possibilità, risolvendoli, di uscire dannato o, al contrario, risorto». Saliamo perciò una scala stretta che conduce, per così dire, dietro le quinte. È un po’ come ritrovarsi in un teatro. A ogni angolo, però, c’è qualcuno che ci controlla. Chiedo a una gentile signora bionda: «Ma in quanti siete nello staff del sindaco, e come mai state sempre in giro appresso a me?».
Adesso siamo noi che, in cima alla scaletta, mostriamo un foglio, firmato da Ignazio Marino, «il candidato», con l’elenco dei suoi finanziatori e l’ammontare dei finanziamenti. Ebbene, anche la campagna di Marino fu sovvenzionata, 30mila euro, dalle cooperative sociali guidate appunto da Buzzi, quello che comprava appalti, l’ex detenuto per omicidio diventato presidente della cooperativa di ex dannati della terra in via Pomona, lo stradone dove avevamo lasciato Pelosi che gli altri operai chiamano, per rispetto al rango, «il signor Pino». Pelosi vuol mettersi in proprio e propone anche lui una cooperativa, con biglietto da visita, numero di telefono e logo libertario.
In via delle Vergini nella stanza 303 al terzo piano del palazzo dei gruppi consiliari, tutti si muovono dentro il labirinto del minotauro Pignatone. A chi toccherà? Il risultato è che anche qui si nascondono, ma solo perché stanno in un’altra “terra di mezzo”, dove si incontrano ladri e derubati, morti e morituri.
Almeno Marino, in Campidoglio, si fa proteggere dai vigili urbani che piantonano la sua porta continuamente attraversata da uscieri affaccendati. Riusciamo a bloccare un vigile che è una specie di Maciste: «Ci hanno detto di stare attenti perché qui girano giornalisti camuffati», dice a noi che camuffati non siamo.
Non si nasconde invece – almeno non subito – il nuovo amministratore delegato dell’Ama che è la società carrozzone che non riesce a pulire Roma. Si chiama Daniele Fortini. Parente del poeta? «No, ahimè, solo cugino di quel matto che per strada disturba le tv». Paolini? «No, diciamo il suo successore, che almeno non è molesto, Mauro Fortini. Lui è il matto della tv, io il matto dell’Ama». E ci dà un po’ di numeri: «7.340 dipendenti, 830 milioni di fatturato, serve tre milioni di abitanti, ha appalti e forniture per 250 milioni l’anno, 650 milioni di debiti con le banche, 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti gestiti, 5 autoparchi con 2.400 automezzi». E ora descrive benissimo il tumore del parastato dove allignano ancora i parassiti, «il mondo parallelo della parentopoli dove Alemanno collocava i suoi». E dove, ammette, «l’ex amministratore delegato ora arrestato, Franco Panzironi, ha ancora i terminali funzionanti». Qui c’è una certa idea di Roma, perché dalle finestre vedi pure il Terminillo ma dentro tutto è triste, è il mondo del travet crocifisso in sala mensa: tetti bassi, speranze strette e luci al neon, non i labirinti di Buzzati che era del Nord e neppure l’ambientazione di Paolo Villaggio, ma la Roma piccola piccola di Cerami, con il il bubbone però della “Mafia Capitale”, che è una formula a cavallo tra esercitazione di stile e tragedia sociale. Anche i soprannomi sono a cavallo tra la malavita e Dagospia, un po’ Totò u curtu e un po’ la Santadeché. Fortini, che da giovane era funzionario berlingueriano del Pci e ha una moglie sindacalista della Fiom, ammette che dentro l’Ama suonano più tribali che mafiosi er Cecato, er Guercio, er Maialetto, il re di Roma, il Nero, er Pirata, er Cane, il Tanca, er Caccola, Cicorione, Rommel, Forfora, er Miliardario. Fortini guadagna «79mila euro lordi l’anno», contro i 545mila del suo predecessore Panzironi, meno degli stipendi concessi ai camerati che Alemanno assunse come quadri.
Se l’aspettava? «Sapevo di star seduto su una bomba». E non poteva fare qualcosa, intervenire prima? È la domanda che gli fa anche Natale Di Cola, giovane segretario della Cgil (funzione pubblica) che ci racconta di avere portato lì anche Camusso «l’11 novembre 2013, ma Fortini ha lasciato tutti gli uomini di prima, forse avrebbe potuto fare di più, sicuramente deve ancora fare il più». Fortini, che è di Orbetello, («ne sono stato il sindaco comunista») ha un bel piano industriale e viene dall’azienda municipalizzata di Napoli, «poi mi chiamò Marino e la chiamata è stata irresistibile». Differenze con Napoli? «Sì. Lì ho incontrato la camorra e qui ho incontrato la politica. E non sto certo dicendo che sono uguali che sarebbe una corbelleria, ma dal consigliere municipale al deputato tutti si sentono autorizzati a dire ad Ama cosa deve fare». Fortini ha l’aria di un bel manager che non ha paura dell’assedio ma dal Campidoglio qualcuno lo chiama e alla fine, anche lui, vorrebbe essersi nascosto, cancellare o rinviare l’intervista.
E voliamo nel quartiere San Lorenzo a cercare la sede dell’Opera Nomadi, la più antica cooperativa sociale a favore dei migranti. Ma il presidente, Massimo Converso, è in Transilvania. Lo chiamiamo al telefono: «È terribile – dice – che in Italia si diffonda l’idea che gli immigrati e i rifugiati sono gestiti dalla mafia. Sono calabrese e combatto la mafia da tutta la vita. È odioso quello che succede». Anche la cooperativa Sorriso, gli dico, quella del palazzo assediato a Tor Sapienza, fa capo al terribile Buzzi, l’elemosiniere della Mafia Capitale. E poi c’è quell’Odevaine che riusciva a intervenire sul ministero e aumentare il numero degli immigrati assegnati al Lazio. Povero Converso, si sente anche lui assediato: «Mi viene quasi da piangere». Abituati alla Roma falsaria, quella della Stangata con i biglietti falsi del bus, adesso questa ci sembra Kobane, la città curda sotto assedio. Soffia dal Campidoglio un’aria da Medio Oriente e da sfascio tribale. Tutti attendono i nuovi avvisi di garanzia come i bramini attendono i prescelti per le pire.
Francesco Merlo

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la Repubblica
Manager e killer, assessori e spacciatori, imprenditori e rapinatori, ministri e assassini. Sì, assassini. Perché mentre fu data per scontata ma mai provata in giudizio la partecipazione di Massimo Carminati all’omicidio Pecorelli, Salvatore Buzzi uccise una prostituta.
FUcondannato e si fece ventiquattro anni a Rebibbia. Questo è l’uomo che circolava come un padrone nei corridoi del Campidoglio e delle grandi società municipalizzate dispensando ordini per conto dell’ottavo “re di Roma”, l’erede della banda della Magliana Carminati, detto “er Guercio” o “er Cecato”. Assassino e anfitrione dell’ormai famosa cena nella quale fu fotografato con Gianni Alemanno, un nugolo di reduci fascisti assurti affamati al potere dopo lustri indelebili di emarginazione nell’eversione nera, con il presidente della Lega delle Cooperative, oggi ministro, Giuliano Poletti, e buona parte del centrosinistra romano. Colletti bianchi, camicie nere e fazzoletti rossi. Ma badate, non ha più senso censire il colore politico, la tessera di partito, men che meno l’ideologia, in questo sordido minestrone di delinquenza e affari, fatto di appalti, usura, droga, estorsioni, armi, in una sinergia criminale — dalla strada dei plebei ai palazzi dei potenti — che fa impallidire Scarface e la Chicago degli anni Venti e rimanda piuttosto al darwinismo sociale di Cesare Lombroso. Il quale oggi, tralasciando le bozze occipitali, forse direbbe che sì il delitto ha perduto la crudeltà dell’uomo primitivo, ma per sostituirvi quella dell’avidità. La truffa gigantesca alle spalle dei gonzi è «garantita — come scriveva in Sui recenti processi bancari di Roma e Parigi — coi nomi più altisonanti e più e più venerati se non venerabili». Scorri i nomi degli arrestati e degli indagati nell’inchiesta sul “Mondo di mezzo”, in cui tutto s’incontra e si mischia, e rabbrividisci per la quantità di pregiudicati della banda che manovrava i fili dei burattini, politici e alti burocrati, li pagava o li minacciava: terroristi dei Nar, cui furono attribuiti 33 omicidi, con precedenti per rapine in banca come Riccardo Brugia, ex fidanzato di Anna Falchi considerato il capo del braccio militare, o Fabio Gaudenzi, riciclatori di soldi sporchi. Molti di loro vengono dal Fungo dell’Eur, dove tanti anni fa si riunivano, ma dopo lo sdoganamento della destra con l’era Berlusconi si misero a loro agio nei palazzi e si trasferirono nei quartieri alti prediletti dal “Cecato”, con le loro signore “mesciate”: Vigna Stelluti e i Parioli, vicini alla base logistica nel distributore di benzina tra Corso Francia e via Flaminia Vecchia. Cerchi di collegare i nomi alle decine di nomignoli con i quali si riconoscono tra loro — “er Cane”, “er Cicorione”, “Kapplerino”, “Rommel”, “er Paletta”, “er Mandrillo” — e li immagini nel gazebo del bar Vigna Stelluti, al Malibù, al bar Euclide, o — per gli incontri di più alto livello — da Celestina ai Parioli, di cui risulta prestanome il commercialista del boss Marco Iannilli, e da Assunta Madre in via Giulia, formalmente di Gianni Micalusi, detto Johnny, accusato di riciclaggio. Fu lì che, registrato dalle cimici sotto il tavolo, Alberto Dell’Utri studiava la latitanza del gemello Marcello in base ai consigli di Gennaro Mokbel, il fascio adoratore di Hitler che infeudò la Finmeccanica al tempo di Guarguaglini, insieme a Massimo Carminati. Buzzi in un’intercettazione esulta: «Ma lo sai che mi dice Massimo? Lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi in Finmeccanica. Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo».
Non solo neri, per carità, in questo canovaccio che conferma una verità ormai consolidata, non solo a Roma, a Napoli, a Reggio Calabria, a Milano o a Venezia, ma in tutta l’Italia: la politica è per pezzi interi al servizio della delinquenza e non viceversa, con l’esclusione doverosa di quei tanti che la fanno perché veramente ci credono.
Strepitosa, nella sua funesta perversione, è la storia di Luca Odevaine, detto lo “Sceriffo”, raccontata nei dettagli da Claudio Gatti sul Sole 2-4 Ore. In realtà, questo si chiamava Odovaine, ma si è cambiato il nome con una “e” probabilmente per nascondere i suoi precedenti da avanzo di galera. Iscritto da giovane alla sezione del Pci di Ponte Milvio, la stessa dei Berlinguer, nel 1989 viene arrestato per stupefacenti e condannato a due anni e nove mesi. Passa poco e viene di nuovo condannato per emissione di assegni a vuoto. Fa il vice nel gabinetto del sindaco Walter Veltroni e poi con Nicola Zingaretti diventa capo della Protezione civile e della polizia provinciale, da cui il nomignolo di “Sceriffo” per confondere ulteriormente i mondi contigui delle guardie e dei ladri nel “Mondo di mezzo”. L’ultima capriola dello “Sceriffo” è quella che ne fa il presidente della Fondazione Integra/Azione, che si occupa di accoglienza dei profughi e degli immigrati, dove può far felice il Buzzi, che nella “dimensione etica” dell’assistenza ai rifugiati con la cooperativa “29 giugno” ha scoperto l’America: «Ma tu c’hai idea — dice in un’intercettazione — su quanto guadagno con gli immigrati?». Decine di milioni, più che con la droga, come sa Odevaine-Odovaine, che riceve 5mila euro al mese dall’ex carcerato Buzzi.
Ora è piuttosto chiaro che Gianni Alemanno, che non è un cuor di leone come sa chi era presente quando lo “corcò” (così si dice a Roma) Gennaro Mokbel, dopo l’elezione a sindaco si circondò per amore o per forza nei posti chiave degli antichi camerati dell’eversione nera, che sapevano troppo di lui fin dai tempi in cui lanciava bombe carta e chissà che altro. Ma siccome continuiamo a distinguere, non possiamo non chiederci come è possibile che Veltroni e Zingaretti possano aver affidato ruoli così delicati a un noto “sòla” — per stare ancora al linguaggio del Mondo di mezzo — di cui dai tempi del Pci molti dovevano conoscere le gesta.
Ci vorrebbe un altro libro, che forse qualcuno sta già scrivendo, per raccontare le mille storie di un network criminal-politico che sembra oscurare la Tammany Hall newyorkese di Plunkitt, la lobby che fino agli anni Settanta sfornò i sindaci di New York basandosi, tra l’altro, sull’assistenza agli immigrati irlandesi e sull’occupazione manu militari delle cariche pubbliche. Ma c’è già quanto basta per certificare, attraverso le parole del capobanda Carminati, il capestro steso da anni e anni sulla capitale d’Italia, che ha bruciato miliardi di euro di risorse e innescato una tensione sociale che non si sa bene dove andrà a sfociare.
Le grandi municipalizzate ne sono state uno degli snodi, come provano le vicende criminali di Franco Panzironi e Riccardo Mancini, i due alani da Alemanno che più che al sindaco rispondevano al capobanda Carminati: sono “sottoposti”, ringhiava “er Cecato”, e “gli imprenditori devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi”, perché sono loro che li hanno messi nei posti dove si decide e si spende. Dell’anello debole della politica, come lo ha chiamato ieri il commissario Anticorruzione Raffaele Cantone commentando i dati di Transparency International che ci confermano il paese più corrotto d’Europa e tra i più corrotti del mondo, il network del malaffare capitolino neanche parla, perché l’asservimento totale è scontato.
Un dubbio nasce ora che i magistrati hanno scoperchiato scientificamente il termitaio: non sarà che la campagna della Panda Rossa contro il sindaco Ignazio Marino, fomentata a destra e a sinistra, nasce nelle spire del Mondo di mezzo che non ha gradito qualche altolà? Perché Marino non sarà il miglior sindaco possibile per la capitale d’Italia, è alquanto gaffeur e certe volte sembra il cugino di Forrest Gump. Ma non è uomo di malaffare.
Alberto Statera