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 2014  novembre 25 Martedì calendario

Insostenibile leggerezza del Sud-Est. Corrono i Pil dell’area asiatica, che però pesa ancora poco sull’export italiano

I numeri possono raccontare tante cose. Quelli dell’export italiano nei Paesi del Sud-est asiatico, per esempio, possono raccontare le opportunità che le imprese non stanno cogliendo in quello che resta uno dei mercati più dinamici del mondo, nonostante la recente frenata. Allo stesso tempo, indicano le enormi chance che l’area offre.
Nelle dieci economie Asean, l’Italia piazza l’1,75% di tutto il suo export (dato 2013). Si tratta di Paesi che, quasi tutti, vedranno il loro Pil crescere di oltre il 5% quest’anno e il prossimo, secondo l’Fmi. Laos e Cambogia supereranno il 7%. Myanmar, al centro di un complesso percorso di apertura ai mercati internazionali dopo gli anni di “clausura” imposta dalla dittatura militare, crescerà dell’8,5%. L’unica eccezione è la Thailandia, frenata dalle inefficienze della classe dirigente, che rimangono anche dopo il recente golpe. Ma anche Bangkok, che quest’anno crescerà forse dell’1%, nel 2015 tornerà al 4,6%.
Dietro questi dati, c’è una dinamica, per quanto controversa e diseguale, di uscita dalla povertà di decine di milioni di persone, che diventano consumatori con capacità di spesa crescente, un’opportunità per le imprese di tutto il mondo. Anche italiane, per esportare come pure per produrre in loco al servizio dei mercati dell’area.
L’aumento del costo del lavoro in Cina (quasi 27,5 dollari al giorno nel 2012, con un balzo del 19% in un anno) sta inoltre rendendo questi Paesi sempre più competitivi: in Vietnam il salario medio giornaliero è di 6,7 dollari (dati 2012), in Indonesia di 8,6 dollari, nelle Filippine 12,5 dollari e in Thailandia 16,3 dollari. C’è però da vedersela con i gruppi cinesi, giapponesi e sudcorerani, che presidiano questi mercati in modo massiccio.
«In questi Paesi – si sottolinea in Confindustria – la rappresentanza istituzionale è importantissima». Per attivare relazioni commerciali bisogna dare la sensazione che dietro la singola impresa ci sia un sistema Paese interessato a stringere relazioni economiche, ma anche politiche. «Una cosa – si osserva ancora in Confindustria – che i nostri partner di riferimento in Europa, Germania e Francia, sanno fare molto bene, con visite di Stato ai massimi livelli e attivando tutti gli organismi di finanziamento dell’internazionalizzazione di cui dispongono. Noi italiani facciamo fatica a muoverci così. Le Pmi, che sono il 99% del nostro tessuto imprenditoriale, o vanno al traino dei grandi gruppi, oppure possono contare su nicchie talmente sviluppate da permettere di entrare da sole. Altrimenti dovrebbero dotarsi di un buon export manager, cosa che spesso non può avvenire per deficit strutturale».
Ognuno dei Paesi Asean, poi, va avvicinato in modo diverso, tenendo conto delle rispettive identità. L’integrazione in corso, che dovrebbe accelerare nel 2015, è ancora molto leggera e rappresenta più la risposta all’esigenza politica di bilanciare la Cina che il progetto di una vera comunità economica. Proprio in questo senso, il Vietnam, che vive una stagione difficile con la Cina, guarda con interesse all’Europa, perché ha bisogno di diversificare i suoi partner economici e di alzare la qualità della propria produzione. Magari arrivando a creare una sorta di “Made in Vietnam”. Qui, l’Italia è al terzo posto tra i Paesi europei per export, dietro a Germania e Paesi Bassi, ma al 23° tra i partner mondiali (dati 2013).
Più o meno la stessa situazione si ritrova in Indonesia, la seconda potenza economica della regione, dove l’export italiano è secondo nella Ue, dietro alla solita Germania, ma 17° in assoluto. «Questi Paesi – spiega Samuele Porsia, direttore dell’ufficio Ice-Agenzia di Jakarta – vivono soprattutto di investimenti diretti esteri e l’Italia non è in buona posizione. Bisogna anche considerare che sono Paesi protezionisti, con barriere non tariffarie che rendono difficile fare trading. In Indonesia, i prodotti alimentari importati non possono arrivare direttamente a Jakarta, ma devono sbarcare nel porto di Surabaya», a circa 800 chilometri di distanza. Certo il mercato indonesiano è molto attraente per le imprese italiane ed europee, «con la domanda domestica in piena effervescenza per la crescita della classe media. Ma bisogna muoversi in un’ottica di lungo periodo». In altre parole, chi investe in loco deve avere spalle abbastanza larghe da poter assorbire qualche anno in perdita, cosa non sempre facile.
A riprova del fatto che se ci si muove compatti i risultati possono arrivare, Porsia sottolinea che dopo la missione di sistema organizzata da Ice-Agenzia a metà del 2013 la presenza italiana in Indonesia è aumentata.