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 2014  novembre 25 Martedì calendario

Il primo malato di ebola italiano si chiama Fabrizio, è un medico siciliano di 50 anni. È stato contagiato in Sierra Leone e ora verrà curato allo Spallanzani di Roma. Verrà disteso su una barella avvolta nel cellophane, una specie di grande sacco che impedisce ogni tipo di contaminazione

Il primo malato di ebola italiano è un medico, un siciliano di 50 anni, volontario a Lakka, in Sierra Leone, due figlie. La Stampa rivela che si chiama Fabrizio ma ha chiesto che il suo nome non venisse divulgato. Michele Farina: «Ha curato persone per un mese, perdendo due litri di sudore al giorno nelle tute isolanti, dentro e fuori la zona rossa sotto le tende di Emergency. Ha festeggiato la guarigione della settantenne Iye, soprannominata nonna Ebola, e quella di Momoh, 5 anni, orfano per il virus, che gli zii sono andati a prendere al cancello del centro di trattamento di Lakka, alla periferia di Freetown, pochi giorni fa. E con i colleghi italiani e britannici era pronto a trascorrere le feste in Sierra Leone, combattendo l’epidemia» [Farina, Cds]. È un eroe.
 
«Alcuni dimostrano ciò che sono tramando nell’ombra, alle spalle, sottovoce, cercando il compromesso e il vantaggio personale; io li definisco vermi. Altri affrontano con coraggio le sfide della vita e le difficoltà, mostrano la propria faccia, sopportano il prezzo da pagare e servono con orgoglio la propria comunità; io li definisco uomini» (così il medico siciliano, sulla sua pagina di Facebook, poco prima di partire dalla Sierra Leone) [Bocci, Rep].
 
È tornato a casa nella notte, su un Boeing KC-767 dell’Aeronautica Militare, chiuso in una speciale struttura denominata «Aircraft Transit Isolator». Quattro ore in ambulanza fino all’aeroporto. E poi cinque di volo assistito da medici e infermieri dell’esercito, un team specializzato in «bio-contenimento». Dallo scalo di Pratica di Mare è stato trasportato all’Istituto Spallanzani di Roma, uno dei due centri specializzati nella cura delle febbri emorragiche [Farina, Cds], l’altro è il Sacco di Milano.
 
«Tesoro stai tranquilla: è tutto sotto controllo. Io mi sento bene e sarò assistito e curato nel migliore dei modi. Mi senti? Se ti sto parlando vuol dire che è tutto ok. Arriverò in Italia con tutte le precauzioni possibili» (Così il medico alla figlia prima di partire dalla Sierra Leone). [Longo, Sta].
 
«Le rassicurazioni di mio padre sono state sicuramente un grande regalo – racconta la ragazza con un tono di voce calmo ma a tratti spaventato – perché sentire dalla sua voce che sta bene è tutta un’altra cosa che saperlo per via indiretta. Sappiamo peraltro che non ha i sintomi del virus e che comunque sarà isolato e trattato con tutte le attenzioni del caso. Ma che dirle? La paura c’è sempre, per questo non mi sento tanto di parlare di lui e del suo impegno in Africa». [Longo, Sta].
 
Dopo mesi di falsi allarmi e una psicosi diffusa, dunque, ora si fa sul serio. La task force, capitanata dal dottor Nicola Petrosillo, uno che Ebola l’ha già affrontata in Africa, che dovrà occuparsi del medico di Emergency sarà composta da una ventina di persone: una quindicina di infermieri e 4-5 medici, divisi per 3 turni al giorno. Saranno loro a mantenere per tutta la durata della degenza i contatti con il primo malato italiano di un’epidemia che, finora, ha provocato oltre 5mila morti e 15mila contagiati, il paziente numero 21 a essere curato lontano dall’Africa [Favale, Rep].
 
Al nostro paziente zero è destinata una delle stanze speciali ad altissima sicurezza in un’ala del nuovo edificio a vetri al centro del complesso ospedaliero realizzato negli Anni 30 nella zona sud della città.  Le stanze hanno un sistema di condizionamento a senso unico. L’aria entra e non esce, in modo da impedire la diffusione di virus e batteri. Viene rigenerata ogni 12 ore. Il medico nel suo «confino» allo Spallanzani, non tocca oggetti, non ha contatti diretti con il personale di assistenza e non può portare con sé neppure il cellulare. Sarà disteso su una barella avvolta nel cellophane, una specie di grande sacco che impedisce ogni tipo di contaminazione [De Bac, Cds]. 
 
I protocolli qui li conoscono a memoria: 57 pagine di un documento aggiornato già tre volte nelle ultime settimane che raccolgono le "Procedure operative per la gestione di casi sospetti, probabili o confermati e contatti di malattia da virus Ebola” [Favale, Rep.]
 
Vanno seguite scrupolosamente le 11 fasi di vestizione (tempo richiesto 10 minuti) ma, soprattutto, i 20 passaggi della svestizione (e qui i tempi raddoppiano). Bisogna sottoporsi a un getto di ipoclorito di sodio allo 0,5 per cento e, nel frattempo, rimuovere uno dei due paia di guanti, poi il grembiule, sciogliere le stringhe della tuta e così via, dai copri-scarpe alla mascherina, dalla mantellina ai goggles, gli occhiali di sicurezza, per finire all’altro paio di guanti, l’ultima cosa da rimuovere prima di lavarsi le mani [Favale, Rep.]
 
«Ogni oggetto personale compreso laptop e cellulare, introdotto nella stanza verrà distrutto nel processo di disinfezione» (così recita il protocollo).
 
«Non bisogna generare panico. Il medico non ha avuto e non avrà contatto con i cittadini, ma solo con personale sanitario addestrato ed equipaggiato» (il ministro della Salute Lorenzin). 
 
La moglie del medico: «Sappiamo che le sue condizioni di salute sono buone, che mangia e non ha manifestato sintomi della forma acuta della patologia, ma è chiaro che siamo un po’ scossi. È normale, si sente tanto parlare di Ebola e ora siamo costretti a doverci fare in qualche modo i conti. Soprattutto le mie figlie vivono momenti di ansia e di attesa» [Longo, Sta].
 
Gli specialisti dello Spallanzani hanno già telefonato ai colleghi dell’Ospedale Carlos III di Madrid, per chiedere il vaccino che è stato usato per curare Teresa Romero, l’infermiera spagnola contagiata dall’Ebola e poi guarita. [Evangelisti, Mess]
 
«Si è fatto l’autodiagnosi. Ha immediatamente capito che doveva verificare la causa del malessere. Quindi si è messo in isolamento. Poche ore dopo, la richiesta per farlo tornare in Italia». Il primo test per la Pcr (la reazione a catena della polimerasi) e poi un secondo hanno confermato la positività al virus. «Si è autodenunciato. È stato assistito sin dai primissimi sintomi. Sappiamo che il tempo fa molta differenza. E in questo caso l’assistenza è stata immediata» (Cecilia Strada, presidente di Emergency) [Farina, Cds]. 
 
Racconta il professor Vittorio Colizzi, immunologo e docente a Tor Vergata, tornato pochi giorni fa proprio dalla Sierra Leone: «La situazione è grave, purtroppo stiamo parlando di un paese molto povero. Non a caso in Nigeria e Senegal il contagio è stato fermato, in Sierra Leone si parla di una media di cento casi al giorno. Ogni cinque chilometri ti fermano ai posti di blocco, ti misurano la temperatura, c’è il coprifuoco tra le 17 alle 9. Gli ospedali sono in grande affanno, ma il ruolo delle ong e del volontariato è fondamentale non solo perché è importante aiutare la popolazione, ma perché il contagio va fermato prima che la diffusione sia troppo vasta». [Evangelisti, Mess]
 
A Freetown la squadra dell’ong milanese conta 26 italiani. Infermieri, medici, logisti: tre case, stanze singole e spazi comuni, piatto preferito gli gnocchi con il ragù della cuoca locale. Nessuno ha chiesto di rientrare. «Gino e gli altri sono chiaramente preoccupati per la salute del nostro collega – dice Cecilia Strada— ma questo non li scoraggia: nel Paese ci sono cento nuovi casi al giorno». In tutto 6.500, con 1.700 morti e appena 356 letti disponibili. A metà dicembre Emergency prenderà in gestione un centro da 100 posti che il governo di Londra sta terminando. Ong italiana, soldi britannici [Farina, Cds]. 


«Se becco Ebola mi faccio curare qua». Promessa del chirurgo Gino Strada, fondatore, volto e padre padrone di Emergency [Micalessin, Gio].
 
E mentre l’Italia deve fare i conti con Ebola in casa, i numeri del micidiale virus crescono. Al 21 novembre si contano ben 15351 casi, di cui 5459 decessi in Guinea, Liberia, Mali, Sierra Leone, Nigeria, due Usa, uno spagnolo. Sono invece 588 gli operatori fino ad ora infettati.
 
La vignetta di Vauro in cui si vedono due africani denutriti che commentano l’allarme Ebola in occidente. “E del fatto che moriamo di fame invece non gliene frega un cazzo?”, dice uno. “La fame non è contagiosa”, risponde l’altro [Bocci, Rep.].
 
«Continuo a ripetere che non c’è da preoccuparsi e, nel prossimo futuro, avremo ancora più strumenti di verifica nei punti degli sbarchi» (Beatrice Lorenzin).