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 2014  novembre 25 Martedì calendario

A Roma, Al Sisi parla di collaborazione contro il «fascismo religioso», collaborazione per stabilizzare la Libia, collaborazione per evitare che i flussi migratori mischiati al jihadismo trasformino il Mediterraneo nell’avanguardia di un vero e proprio attacco. Vuole scuotere una Europa che, presa dalla sua crisi economico-finanziaria, non dedicherebbe sufficiente attenzione a quanto avviene davanti alla sua porta di casa meridionale

N on è stato difficile, per il presidente egiziano al Sisi e per i dirigenti italiani che l’hanno accolto a Roma, individuare nel corso dei colloqui avuti ieri gli «interessi comuni» che suggeriscono ad entrambe le parti un salto di qualità in un rapporto per altri versi non facile. Non si tratta degli interessi economici, che pure esistono e coinvolgono importanti investimenti italiani. Non si tratta neppure soltanto del ruolo di sensibilizzazione che può svolgere l’Italia per ottenere dall’Europa maggiore solidarietà verso un Paese-chiave del Mediterraneo che deve dare risposte adeguate a un esercito di giovani disoccupati, e che negli ultimi tempi è rimasto a galla più per la generosità delle monarchie del Golfo che per quella dell’Occidente. 
Al Sisi è venuto a dirci che se tutto questo rimane vero c’è dell’altro, e si tratta di una emergenza: la stabilità dell’Egitto, ottenuta dai militari con metodi che noi certo non possiamo condividere, va tuttavia pragmaticamente riconosciuta, e rappresenta un ideale punto di partenza per costituire assieme all’Europa un fronte anti jihadista proprio nel momento in cui l’avanzata dell’Isis e il caos libico rivelano tutto il loro minaccioso potenziale. Collaborazione contro il «fascismo religioso» (è questa l’espressione che al Sisi ha usato nell’incontro con Giorgio Napolitano), collaborazione per stabilizzare la Libia, collaborazione per evitare che i flussi migratori mischiati al jihadismo trasformino il Mediterraneo e il Nord Africa nelle avanguardie di un vero e proprio attacco all’Europa: nel riprendere continuamente questi temi, al Sisi è parso voler portare a Roma una sorta di ultimatum per conto terzi destinato a scuotere una Europa che, presa dalla sua crisi economico-finanziaria, non dedicherebbe sufficiente attenzione a quanto avviene davanti alla sua porta di casa meridionale. 
In realtà il tacito rimprovero, che naturalmente non è stato formulato, si giustifica soltanto in parte. Il pragmatismo davanti a un Egitto stabile da parte italiana c’è ed è stato ratificato ieri, anche se qualche voce di contorno si è levata contro le condanne a morte di Fratelli musulmani, quelle emesse ma non eseguite e quella recentemente richiesta nei confronti dell’ex presidente Morsi. Tutti ieri – Napolitano, Renzi, Grasso (che ha colto l’occasione per sollecitare le elezioni parlamentari), Gentiloni – sapevano benissimo con chi stavano parlando e perché. Perché davanti al pericolo incombente l’Egitto non può essere che un alleato. E anche perché l’Egitto, come ha spiegato al Sisi nell’intervista concessa al Corriere della Sera, può svolgere un ruolo costruttivo nello scontro tra israeliani e palestinesi e, si augura il Cairo, nella creazione con adeguate garanzie di uno Stato palestinese. 
Da parte italiana, ieri, non è mancata l’accettazione in linea di principio dell’equazione del presidente egiziano (alleanza e azione contro i jihadisti), non è mancato ovviamente il riconoscimento degli interessi comuni, non è mancata la disponibilità ad approfondire ipotesi di iniziative comuni. Ma qualche differenza di analisi è rimasta, ed è sul capitolo Libia che le diversità sono parse più nette. 
Al Sisi, non sorprendentemente, ha una visione molto «militare» del grande groviglio libico e di come lo si debba affrontare. Occorre creare un valido esercito nazionale libico. Occorre addestrarlo ma anche armarlo con tecnologie sofisticate, insomma bisogna metterlo in grado di vincere. A Tripoli, dove dovrebbe essere in corso una offensiva appoggiata dal governo di Tobruk (quello riconosciuto dall’Occidente), in Cirenaica dove hanno le loro basi gli islamisti, ovunque. L’ex generale Heftar, che gode di un appoggio tacito da parte degli egiziani, può essere un capo militare efficace. E così, senza interventi esterni, la Libia potrà essere stabilizzata e la mala pianta dell’islamismo militante estirpata o almeno contenuta. Ma servono iniziative immediate, perché no da parte di Egitto, Italia e Francia (stasera al Sisi sarà a Parigi)? 
L’Italia non respinge un disegno del genere, ma ha qualche dubbio in più. Gli islamisti sono divisi al loro interno, e in parte sono politicamente recuperabili. Divisioni peraltro esistono anche tra i «lealisti» di Tobruk, che non sono tutti adatti alla missione caldeggiata dall’Egitto. Lo si vede tra l’altro nella difficoltà che incontrano i programmi di addestramento, addirittura sospesi in Gran Bretagna dopo ripetuti casi di violenze e molestie sessuali da parte delle «reclute». L’Italia ritiene che una vittoria militare sul campo sia difficile da immaginare al punto in cui è arrivata la frantumazione della Libia, e si chiede, soprattutto, se sarebbe possibile inviare armi avendo la certezza che non finiscano nelle mani sbagliate. In definitiva, Roma vede ancora un ruolo per l’Organizzazione delle Nazioni Unite e per i tentativi di dialogo. 
L’impressione è che l’Italia sia in ritardo sulla realtà, e al Sisi troppo ottimista sulle capacità di un esercito libico che non c’è. Il «che fare» in Libia resta un enigma in attesa di risposta. E al Sisi ha ragione soprattutto su un punto: la risposta è urgente, dopo sarà troppo tardi.