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 2014  novembre 25 Martedì calendario

Le industrie cinesi inquinano la riserva d’acqua dolce del Paese. Dissetava due milioni di persone: ora è una immensa melma tossica che sprigiona gas irrespirabili. Ma la popolazione locale non ne può più. E si ribella

Il lago Tai, sul delta del fiume Yangtze, diventa il simbolo della lotta per evitare che la Cina, prima di diventare ricca, muoia intossicata. Era la terza riserva d’acqua dolce del Paese e dissetava due milioni di persone. Dieci milioni di contadini e di pescatori, nel Jiangsu, vivevano grazie ad uno degli ecosistemi più ricchi e intatti dell’Asia. Oggi il lago Tai è un’immensa fogna ribollente di veleni. Duemila industrie scaricano ogni giorno milioni di tonnellate di sostanze nocive: l’acqua si è trasformata in una melma tossica, la fauna è estinta, i gas sprigionati sono irrespirabili e alghe alte dieci metri nascondono l’invaso. I funzionari del partito assicurano di aver speso 14 miliardi di dollari per depurarlo. Il risultato però è drammatico e mette in discussione gli impegni internazionali appena assunti da Pechino per trasformare la Cina nella super-potenza verde del secolo. L’icona della realtà che smentisce le apparenze conferma lo stato catastrofico in cui si trova la natura nella seconda economia mondiale.
Per la prima volta però la popolazione si ribella, denuncia i dirigenti locali e intima al governo di provare con i fatti di «voler salvare non solo il clima del pianeta, ma anche la vita della patria». La rivolta contro la condanna del lago Tai ha anche il suo eroe. Si chiama Wu Lihong, 46 anni, è un ex pescatore del villaggio di Zhoutie e per il suo impegno ambientalista ha trascorso cinque anni in carcere. Nel 2007, dopo aver denunciato gli scarichi abusivi di impianti chimici, fabbriche tessili e laboratori di ceramica, è stato condannato con l’accusa di «divulgazione di notizie contrarie agli interessi nazionali». In cella di isolamento è stato picchiato e torturato, finché ha firmato la falsa confessione di un ricatto. Oggi guida di nuovo le proteste e chiede al presidente Xi Jinping di «essere coerente»: «Se Pechino con tutta la sua forza non riesce a ripulire il lago Tai significa che siamo oltre la soglia del non ritorno e che nel resto del mondo deve suonare l’allarme».
La storia è esemplare anche nel chiarire le contraddizioni tra potere centrale e interessi delle regioni. Il governo è impegnato a disinquinare il lago dal 2001. Stanzia montagne di denaro e invia sul posto alti dirigenti a controllare i progressi. Wu e gli abitanti di Zhoutie hanno denunciato che prima dei sopralluoghi, i funzionari locali liberano migliaia di carpe nel lago, dragano i fondali, distribuiscono canne da pesca e reti alla popolazione e ordinano ai ristoranti di cucinare «pesce locale».
Il leader della rivolta, nominato “Guerriero ambientale” dal Congresso nazionale del popoli nel 2005, è finito all’indice quando il segretario del partito del Jiangsu ha spiegato che «l’80% del Pil regionale dipende da industrie che non possono chiudere, per evitare di sporcare un po’». Dopo vent’anni di «interventi per la depurazione», nei giorni scorsi l’Autorità di bacino ha ammesso che il 90% dei campioni d’acqua risultano così tossici che è «pericoloso anche il solo contatto con la pelle». Un ragazzo caduto da un molo è stato ricoverato per ustioni e sei bambini sono in ospedale dopo aver bevuto da una bottiglia che galleggiava tra le alghe. I residenti ripetono che «per imprenditori criminali e funzionari corrotti violare le leggi costa meno che rispettarle». Il “cancro del lago Tai” è quello che distrugge anche il resto della Cina. Se Pechino non guarisce, i patti verdi con Washington serviranno solo a nascondere altre emergenze, nuovi affari sporchi.