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 2014  novembre 25 Martedì calendario

Delitto di Garlasco: il pg chiede trent’anni per Alberto Stasi. È il massimo per il reato contestato, omicidio volontario aggravato dalla crudeltà, vista la scelta del rito abbreviato. L’ex fidanzato di Chiara Poggi è già stato assolto in due gradi di giudizio con sentenze poi annullate dalla Cassazione

  Dopo sette anni e quattro processi non è ancora esaurita l’impressionante catena di errori e omissioni grazie ai quali l’assassino di Chiara Poggi non ha ancora un nome. L’ultimo l’ha estratto ieri dal cilindro il sostituto procuratore generale Laura Barbaini poco prima di chiedere, per la seconda volta, la condanna a 30 anni di carcere per Alberto Stasi, il fidanzato oggi trentunenne già assolto in due gradi di giudizio con sentenze poi annullate dalla Cassazione. È il massimo per il reato contestato, omicidio volontario aggravato dalla crudeltà, vista la scelta del rito abbreviato.

L’assassino aveva lasciato le sue impronte sul corpo della vittima, evidentemente mentre lo sollevava per gettarlo giù dalle scale: quattro ditate intrise di sangue impresse «in modo nettissimo» sul pigiama rosa, all’altezza della spalla sinistra. Erano ben visibili in una foto mostrata ieri ai giurati. Quelle tracce si sarebbero potute analizzare per ricavarne, con un po’ di fortuna, se non le impronte digitali, almeno un Dna misto, ovviamente della vittima ma anche dell’assassino.
Se ne parlò nei primi giorni, quando sembrava che gli inquirenti avessero in mano in pratica la firma del killer, poi l’elemento scomparve dall’inchiesta. Per un motivo semplice: le quattro ditate insanguinate erano state inopinatamente cancellate e distrutte poco dopo essere state fotografate per l’imperizia degli addetti della Medicina legale che, insieme al personale delle onoranze funebri, provvidero alla rimozione e poi alla svestizione del cadavere. Al termine di quelle operazioni non c’era più un pigiama con quattro tracce ematiche ma uno completamente intriso di sangue.
Così anche sulla foto cadde il silenzio. Il pg l’ha ripescata negli atti e l’ha valorizzata per rinforzare l’indizio – ritenuto «non grave» dai primi giudici – delle tracce ritrovate sul dispenser del sapone liquido in bagno: un’impronta digitale dell’anulare destro di Stasi sull’erogatore e Dna di Chiara sul flacone. La difesa sostenne che potevano essere state lasciate in qualsiasi momento, ad esempio la sera prima, e i giudici convennero. Ora il pg ritiene di aver dimostrato che l’assassino si imbrattò le mani di sangue e quindi andò in bagno (come si ricava dalle due nitide orme «statiche» insanguinate sul tappetino) a lavarsi, e non solo a guardarsi allo specchio per controllare se fosse sporco. Anche ammettendo che poi abbia sciacquato il dispenser, come si spiega che cancellò solo le sue impronte e non anche quelle di Stasi deposte in precedenza?
È solo una delle tante ragioni per le quali la pubblica accusa ritiene Stasi colpevole. Agli indizi emersi nei primi processi vanno aggiunti quelli trascurati ma valorizzati dalla Cassazione, come l’assenza di alibi, una serie di circostanze che rivelano «rapporti di confidenzialità» tra vittima e assassino oppure il fatto che Stasi non menzionò la bici nera da donna tra quelle di cui disponeva. Poi ci sono gli elementi nuovi, emersi nell’Appello bis: dalla sostituzione dei pedali della bici bordeaux (l’hanno confermato sia il produttore sia il venditore) alla conferma dell’impossibilità di attraversare la scena senza pestare sangue fino a quei graffi sull’avambraccio sinistro notati da due carabinieri.
Il processo prosegue giovedì con l’arringa della parte civile. Il 3 dicembre concluderà la difesa e il 17 arriverà la sentenza, a cinque anni esatti dalla prima assoluzione.