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 2014  novembre 25 Martedì calendario

Le nuove strategie per combattere l’Hiv. In attesa di un vaccino – che ancora non si vede all’orizzonte — si cercano farmaci che cancellino l’infezione nel sangue. L’Aids, in 30 anni, ha ucciso 40 milioni di persone e altre 40 milioni oggi ci convivono...

Con gli oltre 40 milioni di morti da quando fu scoperta (nel 1981) e gli oltre 40 milioni di persone che oggi vivono con il virus Hiv, questa epidemia resta la più grande emergenza sanitaria degli ultimi 30 anni. E questo malgrado lo straordinario successo della ricerca biomedica, che è riuscita a mettere a punto terapie efficaci, che riescono ad evitare il passaggio alla fase più avanzata dell’infezione, cioè all’Aids, anche se non “guariscono” dall’infezione. Malgrado il notevole impatto delle cure sulla mortalità (calata ovunque ci sia accesso alle terapie), il numero delle nuove infezioni non diminuisce come si sperava. Anzi, in alcune zone, anche vicine a noi, come l’Europa dell’est, e l’Asia centrale, questi numeri hanno una preoccupante impennata. Malgrado l’eccezionale sforzo fatto dalla comunità internazionale per promuovere l’accesso universale ai farmaci —oltre 14 milioni di persone nel mondo in cura, grazie, soprattutto, al Global Fund – restano drammatiche le diseguaglianze, soprattutto tra le popolazioni dei Paesi più poveri e tra le persone più a rischio. E questa “epidemia nell’epidemia” colpisce le persone più fragili e vulnerabili tra cui le donne (una giovane donna si infetta ogni minuto nel mondo) e i bambini. Inoltre, il 40% degli infettati nel mondo (e anche da noi) non sa di esserlo ed è fonte (talvolta inconsapevole) di nuovi casi.In attesa di un vaccino – che ancora non si vede all’orizzonte – potrebbe finalmente cambiare il corso dell’epidemia la scoperta di cure capaci non solo di migliorare la salute delle persone infettate (che oggi, se curate bene e prese in tempo hanno un’aspettativa di vita simile ai non infetti) ma anche di interrompere la trasmissione del virus Hiv. Quindi, un effetto dei farmaci sia terapeutico che preventivo. Su questo si basa la nuova strategia disegnata da Unaids e Oms. L’obiettivo per il 2020 è mettere in cura un numero alto di persone infettate (modelli matematici indicano una soglia minima del 70% degli infettati) in modo da abbattere la trasmissione del virus e “spegnere” progressivamente l’epidemia. Ma serve un ulteriore cambio di passo, anche in termini di investimenti in strutture sanitarie e in farmaci innovativi.Si tratta di un obiettivo però raggiungibile, visto quanto è stato già fatto sinora, e visto il modello di “salute globale” realizzato contro l’Aids: una mobilitazione straordinaria e un’unione di intenti tra ricercatori, medici, attivisti, pazienti e organizzazioni non governative, uomini illuminati della politica, della religione e dell’economia verso l’obiettivo comune di contrastare un’epidemia devastante per tanti Paesi non solo africani.L’Aids ha colpito dall’inizio anche i Paesi occidentali, e questo forse spiega le differenze nella velocità e nell’incisività degli interventi rispetto a Ebola (almeno finché quest’ultimo virus non ha mostrato la tendenza a uscire dai propri confini). Certo, Aids ed Ebola sono patologie diverse nell’epidemiologia, nelle modalità prevalenti di trasmissione, nel decorso clinico – cronico per l’Aids e iper acuto nell’Ebola. Ma hanno anche alcuni tratti in comune, il più drammatico dei quali è l’impatto devastante delle carenze strutturali dei sistemi sanitari dei Paesi più poveri. In realtà, il persistere di diseguaglianze in termini di accesso alla salute – non soltanto tra Paesi ricchi e Paesi più poveri, ma anche tra diverse regioni dei singoli Paesi – è intollerabile perché la salute è un diritto fondamentale dell’uomo. Ed è un controsenso scientifico, vista la crescente interdipendenza geografica delle malattie infettive.Forse, questi lunghi anni di lotta all’Aids e di battaglie per l’accesso universale alle cure, hanno finalmente fatto capire che una delle più grandi sfide della medicina moderna è la lotta alle diseguaglianze nell’accesso alla salute. Che non riguarda soltanto le cosiddette “malattie della povertà”, come Aids, tubercolosi e malaria. E che non vuol dire solo “portare i farmaci” a chi ne ha bisogno, ma lavorare globalmente anche sugli aspetti sociali e politici, sui diritti umani e sulle ragioni economiche alla base di queste diseguaglianze.Il concetto di salute globale trascende le prospettive e gli interessi individuali delle singole nazioni non solo perché ai virus non serve il passaporto per varcare le frontiere, ma perché in un mondo sempre più “piccolo”, occuparsi della salute anche di chi è lontano significa curare e prevenire le malattie di chi ci sta accanto.