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 2014  novembre 24 Lunedì calendario

Come rallentare l’invecchiamento del cervello: una grande sfida per la scienza. Gli ultimi studi superano il dualismo mente-corpo: anche le emozioni possono servire a frenare l’orologio biologico. La risposta è nei geni?

Una casa come una macchina del tempo, diretta verso un passato di arredi anni Cinquanta: le tendine alle finestre, il secchio per il carbone, una radio gracchiante vecchie canzoni. E nessuno specchio, perché gli ospiti non vedessero i propri veri volti. La casetta anacronistica fu inventata dalla psicologa americana Ellen Langer, che nel 1981 fece accomodare al suo interno cinque anziani. Alla fine del soggiorno, giura Langer, i cinque erano ringiovaniti: facevano le scale con meno sforzi, erano più agili e avevano persino meno problemi di vista. Risultati così buoni, racconta oggi Langer al New York Times, che non ebbe nemmeno il coraggio di sottoporli a una rivista scientifica, temendo (o sapendo) di non essere presa sul serio. Anni dopo lo stesso esperimento fu ripetuto a favore di telecamera, per un reality della Bbc che aveva come ospiti cinque celebrità passatelle. Mentre le idee di Langer sul potere della mente sono diventate materia da bestseller e da manuali dal sapore new age in cui si raccontano esperimenti su come la calvizie possa peggiorare la percezione del proprio stato di salute, e quindi comprometterla davvero, o su come ci si possa garantire una vecchiaia sana imparando a tenere attiva la mente e a cercare le novità in ogni piccola cosa.
Ellen Langer ha una cattedra ad Harvard: «Per me l’esperimento del 1981 ha dimostrato che il modello biomedico dell’epoca, che teneva mente e corpo su binari separati, era sbagliato», spiega oggi. In realtà, a superare il dualismo mente – corpo la medicina del ventesimo secolo ci stava pensando da un pezzo. E in realtà quello che propone Langer non è altro che un effetto placebo sotto forma di pillole di benessere che migliorano l’umore e quindi, anche, in una certa misura, la salute dell’organismo.
Ma quello che era nuovo allora, e che oggi comincia a essere tendenza, è la proposta di operare un lifting al cervello per fermare gli orologi del corpo. Proposta che suona bene in senso commerciale, ma meno in senso scientifico, e lascia perplessi gli esperti di quella che viene chiamata geroscience, cioè la ricerca sull’invecchiamento. I suoi obiettivi sono diversi da quelli di Langer: «La nostra idea – spiega Claudio Franceschi, professore di immunologia all’università di Bologna e uno dei più importanti studiosi della longevità – è che studiare l’invecchiamento serva a capire le malattie dell’invecchiamento, che sono deviazioni dai meccanismi biologici sani». Non a impedire l’invecchiamento. Cioè l’obiettivo della ricerca non deve essere il cosiddetto antiaging: «Quella è una tendenza americana, di una società ossessionata dalla giovinezza. Ma a noi non interessa fare soldi così». Si parte semmai dalla constatazione che la maggior parte delle malattie ha come principale fattore di rischio l’età e quindi che più si invecchia più si rischia di ammalarsi. Ed è la salute l’obiettivo della ricerca, non l’eterna giovinezza in dieci comode rate.
Il versante psicologico della faccenda è comunque importante. Nessuno lo nega: «Il rapporto tra emozioni e salute è un’area calda della ricerca scientifica. Stiamo perciò cominciando a studiare l’effetto positivo delle emozioni, non più solo quello negativo degli stress», prosegue Franceschi. Ma attenzione a non pensare che la storia si esaurisca qui «perché la dura realtà biologica è un’altra». La dura realtà biologica è che le nostre cellule invecchiano eccome. Perciò possiamo fare un lifting alle zampe di gallina, e uno al cervello, ma per rassegnarci alla speranza di un invecchiamento sano conviene soprattutto prendersi cura di noi, concretamente.
Anche questa può suonare come una banalità, ma qui la scienza conferma. Per esempio, confermano gli studi sui cosiddetti orologi biologici: meccanismi di regolazione dell’espressione dei geni del Dna che rispondono a oscillazioni molecolari su periodi di ventiquattro ore, una specie di minuscolo orologio a pendola che regola i nostri comportamenti. A partire dal ritmo sonno- veglia.
«Si è visto che più si rispetta l’orologio endogeno – spiega Rodolfo Costa, professore di genetica all’università di Padova e coordinatore dell’unità di ricerca in Neurogenetica e Cronobiologia – più si vive in armonia con l’ambiente». Mentre forzarlo su ritmi diversi «aumenta il rischio di malattie anche gravi, metaboliche e cardiovascolari».Va detto che non è sempre possibile assecondare i propri ritmi: «Molti di noi sono soggetti a un jet lag sociale, cioè devono dormire in orari diversi da quelli che sarebbero loro, per adeguarsi al lavoro e al resto della società», prosegue Costa. E ci si può fare poco, se non recuperare il sonno perso, e solo parzialmente, durante il weekend. Quello che però la geroscience sta inseguendo è un cambio di paradigma che consideri l’invecchiamento un fenomeno ad alta complessità. «Per esempio – prosegue Franceschi – un tempo per studiare l’invecchiamento si studiavano i vecchi, ma oggi sappiamo che dobbiamo cominciare dai bambini». Perché noi siamo il risultato di «quello che ci è successo nel corso di tutta la vita: dal punto di vista nutritivo, ambientale, psicologico…». Quindi anche la genetica tradizionale non ci basta più. Non basta più studiare il Dna dell’individuo, cioè il Dna contenuto nel nucleo di ogni sua cellula, per capire come e perché qualcuno è più longevo. Bisogna considerare anche il Dna mitocondriale, cioè il Dna contenuto in particolari organelli che si trovano a migliaia di copie dentro ogni cellula. «Ma c’è dell’altro», insiste Franceschi. C’è il Dna di tutti i batteri che ci vivono addosso, che insieme costituiscono il microbioma: «Sono migliaia di specie batteriche che insieme hanno cento volte il numero di geni del nostro Dna, e che producono vitamine, digeriscono il cibo, mantengono il nostro sistema immunitario». E, cosa importante, «la loro composizione è influenzata dall’età, dalla dieta, ma anche dall’esercizio fisico e dalle emozioni».
Ed ecco che il cerchio si chiude. Tornano le emozioni, che influenzano il microbioma, che a sua volta influenza il nostro organismo. Solo che tornano in un quadro così dettagliato da autorizzare ad abbandonare le vaghezze sul potere della mente per entrare in dettagli biologici che oggi cominciamo a conoscere davvero.
Ma comunque la vogliamo mettere, dobbiamo considerare che l’invecchiamento del corpo non è poi un fatto tanto naturale. L’uomo non è programmato per vivere cent’anni, anche se qualcuno ci riesce. Cioè: negli ultimi decenni abbiamo allungato moltissimo le nostre aspettative di vita. Ma i nostri geni sono rimasti gli stessi. Ed è qui il vero anacronismo, non in una casetta ferma agli anni Cinquanta.
Silvia Bencivelli
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L’attesa di vita media alla nascita ha fluttuato per millenni ben al di sotto dei 35 anni. Non che tutti i nostri antenati non invecchiassero. Erano però pochi quelli che ci riuscivano. Inoltre, la vecchiaia era apprezzata solo quando i “vecchi” rimanevano autonomi. Parole come invecchiamento e vecchiaia non sono mai state culturalmente enfatizzate, perché era evidente che si trattasse di una fase naturale, inevitabile e tipicamente conclusiva del ciclo vitale umano. Dall’inizio del 1800, grazie ai progressi medici, ai miglioramenti dell’igiene, all’istruzione e alla produzione di ricchezza economica e sociale, l’attesa di vita media è però cresciuta costantemente. Oggi, giapponesi e italiani sono i più longevi, superando anche gli 80 anni. Ma non solo. In Italia, nel mio e in altri settori, conosco un lungo elenco di colleghi “di quella età”, le cui capacità deduttive, progettuali e creative continuano a essere per me illuminanti.
Cresce quindi l’interesse per i meccanismi sottesi all’invecchiamento. In biologia e medicina, l’unità base per spiegare tutto rimane la cellula. Se le nostre cellule, come quelle di qualunque altro sistema biologico non avessero un numero programmato di cicli replicativi saremmo potenzialmente immortali. Ma l’immortalità delle cellule non è un bene perché genera tumori. Replicazione e morte cellulare insieme permettono, al contrario, la creazione di varietà tra le specie, necessaria a rispondere ai cambiamenti ambientali. Anche l’invecchiamento dei neuroni è un processo fisiologico evolutivamente previsto. Studi sul cervello dimostrano che abbiamo una riserva endogena di staminali neurali che producono nuovi neuroni, ma solo saltuariamente e solo in un paio di microdistretti cerebrali, uno dei quali fortemente implicato nei meccanismi di memoria e apprendimento. Alcune ricerche vorrebbero spingere su questa riserva endogena e quindi sulla neo-genesi neuronale per rallentare il decadimento cognitivo. Ma si tratta di frontiere molto lontane. Bisogna studiare. Dallo studio della biologia delle staminali ci si attende anche una migliore comprensione dei fattori genetici e biochimici implicati nei processi di senescenza cellulare, ovvero che possano un giorno ritardare alcune delle conseguenze neurologiche e psicologiche di questi processi. Alcuni geni legati all’invecchiamento sono ora noti grazie anche a scoperte della ricerca di base italiana.
Con la longevità aumentano purtroppo anche le malattie degenerative. Sono una conseguenza del disaccoppiamento tra la nostra fisiologia, che si è selezionata per sopravvivere nella savana pleistocenica, e l’ambiente, che dalla rivoluzione agricola in poi è diventato sempre più artificiale per proteggerci dalle insidie ecologiche e alimentari naturali, allungandoci la vita. Da ciò noi viviamo molto più a lungo, ma con un’efficienza fisiologica messa alla prova da fattori di rischio che non erano mai esistiti prima. Inoltre, il fatto che in media le persone si riproducessero prima di 35 anni ha concentrato la fase di influenza di alcuni cosiddetti geni-malattia nel periodo di vita adulta.
Va da sé che per invecchiare bene si debba condurre una vita salutare. Sono importanti la dieta, l’attività fisica e coltivare interessi, in particolare culturali. Esperimenti condotti su animali dimostrano che l’attività fisica e gli stimoli visivi inducono le staminali cerebrali a generare più neuroni. Io penso, comunque, che le risposte principali per ritardare la senescenza, cioè gli effetti deleteri dell’invecchiamento, risiedano nei geni e nella loro storia. Storia che vuol dire conoscere il passato. Sappiamo che le società più avanzate sono quelle in cui un numero ampio di persone, non solo pochi benestanti, vive una vita lunga e in buona salute. Ebbene una sfida importante è abbattere le disuguaglianze nella salute, che dipendono molto da istruzione e reddito. In questo, scienza, politica e istituzioni devono collaborare con un proficuo dialogo basato su fatti scientificamente comprovati, sulla trasparenza delle responsabilità e sulla fiducia.
Il nuovo “invecchiamento” è sempre più un patrimonio diffuso che potrebbe evolvere in una fase ancor più vitale di maggior serenità, libertà, creatività e utilità sociale. Soprattutto, non distruggerei mai l’occasione di attingere alle competenze e alle esperienze accumulate nei circuiti dei cervelli anziani. Un tempo sono stati giovani e ora portano con sé decenni di allenamento verso le nuove idee, utilissimi per la collaborazione tra generazioni.
Elena Cattaneo