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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

Oscar Farinetti: «Mi vogliono male perché sono amico di Renzi». Il fondatore di Eataly costretto dalla polizia a disertare un dibattito. «A protestare contro le condizioni di lavoro nelle mie aziende non sono i miei dipendenti, e neppure i sindacati. Non ne avrebbero motivo: l’83 per cento dei dipendenti nei punti vendita storici di Eataly è a tempo indeterminato. In quelli nuovi la percentuale è del 50 per cento»

A tanto arriva l’odio nell’Italia dei nostri giorni: al fatto che anche una conferenza di Oscar Farinetti diventa un problema di ordine pubblico. L’uomo che ha inventato Eataly avrebbe dovuto parlare questa sera a Palazzo Ducale a Genova, ospite della Fondazione Edoardo Garrone. Giovanna Zucconi lo avrebbe intervistato sul futuro del nostro Paese, nell’ambito di una rassegna che si chiama «L’Italia s’è desta?». Ma l’incontro è stato annullato su suggerimento della Digos, che ha sentito puzza di bruciato, cioè di contestazioni e incidenti. Altro che desta: l’Italia rivive vecchi incubi.
Farinetti, che cosa è successo?
«Che tre o quattro persone hanno volantinato davanti a Eataly a Genova e da lì dev’essere partito un allarme. Fatto sta che dalla Fondazione Garrone mi hanno telefonato dicendo che non se la sentivano più. Avevano paura di disordini»
Lei ha avuto paura?
«No. Sono figlio di un partigiano della Matteotti. Sarei andato e avrei invitato sul palco qualcuno dei miei contestatori, in modo da potermi confrontare. Ma la polizia temeva per la mia incolumità e per quella del pubblico».
Che effetto le fa essere considerato un pericolo per l’ordine pubblico?
«Ci sto male da matti»
Le danno del nemico del popolo?
«Alcuni imprenditori miei amici mi considerano un comunista, eppure c’è gente che mi dà dello sfruttatore».
Ecco, tutto è nato da lì: dalle accuse di sfruttare i dipendenti.
«Le rispondo con un dato di fatto: a protestare contro le condizioni di lavoro nelle mie aziende non sono i miei dipendenti, e neppure i sindacati. Non ne avrebbero motivo: l’83 per cento dei dipendenti nei punti vendita storici di Eataly è a tempo indeterminato. In quelli nuovi la percentuale è del 50 per cento, ma solo perché i nuovi assunti devono imparare il mestiere: nel giro di pochi mesi, adeguiamo i contratti. Guardi, un 5-6 per cento di dipendenti incazzati ci sarà anche, ma è fisiologico in ogni azienda».
E allora perché la trattano come un padrone delle ferriere?
«Perché sono amico di Renzi». 
Lei era un imprenditore stimato da tutti fino a poco tempo fa. Dunque i suoi guai sono cominciati quando ha detto di essere renziano?
«Sì, ma stia attento: io non sono renziano. Sono renzista».
Questa ci sfuggiva. Qual è la differenza?
«Vuol dire che non sono un suo sodale politico, sono uno che approva quel suo modo di affrontare i problemi e di cercare di risolverli rapidamente. Anche la sua imprecisione mi piace».
Imprecisione?
«Sì, Renzi non fa cose perfette. ma almeno comincia a fare. Aspettando la perfezione, per troppo tempo non si è fatto nulla».
Oggi comunque Renzi è un personaggio che divide.
«Sì, ma la divisione ci sta. Il guaio è che si usa un linguaggio troppo violento».
Ad esempio?
«È violenza dire “sei stato eletto dai poteri forti”. Ed è violenza – lo ammetto – anche dire che i sindacati non contano nulla».
Lei con i sindacati in che rapporti è?
«Ottimi. Le ripeto: ad attaccarmi non sono i miei dipendenti, e neppure Cgil Cisl e Uil, ma qualche cobas, qualche isolato. Il problema è che poi certe leggende metropolitane vengono rilanciate dai social forum e il clima si avvelena».
Quello che è accaduto a Genova è figlio di questo, di un clima avvelenato?
«Penso di sì. Io sono stato educato ad ascoltare tutti e anche a cambiare idea, se mi convincono. Ma ho l’impressione che adesso in Italia si dedichi pochissimo tempo ad ascoltare le ragioni altrui. Purtroppo la violenza verbale non corre solo on line: ha presente i talk show televisivi? Sono catini di livore rovesciati sugli italiani».
Torniamo ai suoi dipendenti. Quanti ne ha?
«Quattromila, di cui duemila in Italia. Capisce? In sette anni, da zero, ho dato lavoro – anzi, abbiamo dato lavoro, perché il merito è anche dei miei dipendenti – a duemila persone in Italia, in un tempo di crisi. E abbiamo ridato vita a dieci luoghi storici abbandonati senza ricevere un centesimo di contributo pubblico».
Bella riconoscenza, lei dirà: non la fanno neppure parlare in pubblico.
«Io non rinfaccio niente a nessuno: creare posti di lavoro è un dovere. La cosa di cui non mi capacito, la cosa che mi fa stare male, è che le accuse contro di me sono false».
Tentazione di lasciare l’Italia?
«Eataly è fatta di soci che hanno rischiato i propri capitali e non si sono mai distribuiti i dividendi. A marzo apriamo a san Paolo, a luglio a Mosca. E in Italia ci trattano così. Davvero verrebbe voglia di dire: andiamocene. Ma non mollo. Lo devo a un sacco di giovani italiani che cercano un lavoro».