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 2014  novembre 04 Martedì calendario

Dopo la puntata di Report in cui la Gabanelli ha scioccato il pubblico con le immagini delle oche, che verrebbero spennate vive e scorticate a sangue per produrre i piumini Moncler, il titolo crolla in borsa. Secondo Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia, «così si distrugge la moda, la seconda industria del Paese». Un comparto che vale 56 miliardi di euro, «ovvero basta il fashion per ripagare i costi dell’energia, visto che il Paese ha speso nel 2013, secondo le stime 2013 dell’Unione Petrolifera, 56,1 miliardi». Intanto gli animalisti attaccano. Cinzia Rocchi, dell’Enpa: «È una pratica selvaggia. Mi viene da ridere quando provano a difendersi dicendo che adottano un codice etico sulle forniture»

Libero,

Non è bastata la replica ufficiale della Moncler a rassicurare gli operatori di Borsa. Il marchio di abbigliamento di proprietà dell’imprenditore Remo Ruffini ha continuato a viaggiare in negativo a Piazza Affari per tutta la giornata, chiudendo a -4,8%. Colpa di Report. Il programma Rai di Milena Gabanelli domenica sera ha ricostruito le fasi della produzione dei giacconi, mettendo sotto accusa le tecniche utilizzate per procurarsi le piume d’oca. La normativa europea prevede che il piumaggio venga raccolto mediante pettinatura, una tecnica che non causa dolore agli uccelli. Secondo la ricostruzione della trasmissione televisiva, invece, le piume che poi finiscono nei capi Moncler verrebbero strappate agli animali vivi, senza alcun tipo di rispetto della normativa vigente e provocando lacerazioni alla pelle. Report ha messo poi in dubbio anche la qualità di queste piume, che sembra vengano messe assieme ad altre di valore più scadente prelevate per esempio da altri uccelli come le anatre. Ma non è tutto. Sotto processo è finito anche il prodotto finale. La colpa, in questo caso, sarebbe quella di assemblare i giacconi non in Italia, ma nell’Europa dell’Est: Romania ma anche Armenia e anche Transnistria, uno Stato auto-proclamato facente parte del territorio della Moldavia, non riconosciuto dalle Nazioni Unite. Non contenta, la Gabanelli ha infine puntato il dito sul prezzo finale del prodotto, che sarebbe di molto sovraccaricato rispetto a quanto prendono i terzisti. Quest’ultimi, secondo la versione fornita da Report, ricevono per ogni capo un compenso che si aggira tra i 30 e i 45 euro, mentre sul cartellino, in negozio, il prezzo sale fino a raggiungere i 1.200 euro. Piccata, e con promesse di querela, la risposta dell’azienda. «Moncler», si legge in una nota diffusa ieri, «specifica che tutte le piume utilizzate in azienda provengono da fornitori altamente qualificati che aderiscono ai principi dell’ente europeo Edfa (European Down and Feather Association), e che sono obbligati contrattualmente a garantire il rispetto dei principi a tutela degli animali. Tali fornitori sono ad oggi situati in Italia, Francia e Nord America. Non sussiste quindi alcun legame con le immagini forti mandate in onda riferite a allevatori, fornitori o aziende che operano in maniera impropria o illegale, e che sono state associate in maniera del tutto strumentale a Moncler». Quanto alla «delocalizzazione» la Moncler fa sapere che «non ha mai spostato la produzione, come afferma il servizio, visto che da sempre produce anche in Est Europa». Per quanto riguarda i ricarichi, infine, «il costo del prodotto viene moltiplicato, come d’uso nel settore lusso, di un coefficiente pari a circa il 2,5 dall’azienda al negoziante, a copertura dei costi indiretti di gestione e distribuzione». Mentre «nei vari Paesi la distribuzione applica, in base al proprio mercato di riferimento, il ricarico in uso in quel mercato».
Alessandro Antonini

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il Giornale,

«Stanno cercando di fare alla moda quel che è stato fatto alla nautica: un’industria distrutta dai pregiudizi, come se tutti i proprietari di barche fossero evasori o faccendieri». Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia, l’associazione di Confindustria che riunisce le 48 mila aziende del tessile-abbigliamento, è seriamente preoccupato per l’attacco al lusso travestito da giornalismo verità della trasmissione Report in onda domenica sera su Rai 3.
Non è la prima volta che Gabanelli se la prende con la moda, secondo lei perché?
«Una settimana fa se l’è presa con i pizzaioli e domenica con la moda o, meglio, con Remo Ruffini di Moncler: l’ha preso di mira, un attacco così diretto da sembrare quasi personale». 
Veramente ha attaccato anche Prada che aveva già fatto a fettine in precedenza.
«Appunto, c’è una volontà masochistica di andare a cercare il male nelle aziende che vanno bene».
Secondo lei perché? 
«Non ho certezze, posso solo azzardare ipotesi. Prima di tutto l’invidia è un sentimento molto distruttivo che si nutre di faziosità. E poi è facile prendersela con un settore che sembra, ma non è affatto frivolo. Il nostro è un mondo industriale serio, impegnativo e che funziona a dispetto di tante difficoltà. Nel manifatturiero siamo secondi solo alla meccanica tra quelli che contribuiscono di più allo sviluppo del Paese. Abbiamo una bilancia commerciale positiva per 10 miliardi su 52,5 di fatturato globale del comparto in crescita del 3,6% rispetto al 2013 e con un aumento delle esportazioni del 5,5%».
A quanta gente date lavoro? 
«A 480 mila addetti. Attenzione però: nelle 48 mila aziende di Smi abbiamo dal piccolo laboratorio che produce per conto terzi ai grandi marchi tipo Armani o Prada. Se parliamo di lusso non abbiamo un dato consolidato, ma direi il 15% del totale, cioè 72 mila persone».
Ma il lusso può essere prodotto solo in Italia come dice Report?
«Questo è un punto cruciale. Loro a dir la verità fanno di ogni erba un fascio instillando l’idea che il lusso sia prodotto ovunque fuorchè in Italia. Non è così. Ci sono alcune lavorazioni molto semplici dove la qualità percepita è così bassa che non conviene produrre qui. Con la mia azienda (la Herno di Intra, ndr) produco il 60% sul territorio nazionale e il resto in Romania. Lo dico fuori dai denti come l’ha sempre detto Ruffini. Il vero problema è un altro». 
Quale? 
«Noi imprenditori stiamo lottando da tempo per rendere obbligatoria la certificazione "made in" su tutti i prodotti non food, ma i Paesi del nord Europa, Germania in testa, non ne vogliono sapere. La volontà popolare si è già espressa largamente a favore di questa normativa con 476 voti e 75 contrari. Peccato che a livello europeo l’ultimo passaggio di una normativa sia dato dal consiglio dei primi ministri e su questo siamo in minoranza per cui non passa».
Così avremmo la famosa tracciabilità anche per le piume delle povere oche? 
«Ma anche quella è una forzatura. Certo l’hanno fatto vedere, per cui c’è qualcuno che usa piume d’oca o di anatre spennate vive con quei metodi atroci, ma è un sistema talmente antieconomico che non mi sembra praticabile da una grande industria del lusso. Poi il discorso sul divario tra costi e ricavi era incredibilmente superficiale: non ho sentito menzionare cose costosissime per qualsiasi impresa: ricerca e sviluppo, prototipi, struttura commerciale, retail, ammortamento costi dei negozi, pubblicità».
Ma è vero che un’ora di lavoro in Italia costa 16 volte di più che in Cina? 
«Dicono. Di sicuro in sei Paesi dell’Est Europeo il costo medio della manodopera tessile è 6,7 dollari Usa contro i 22,67 dell’Italia. Perfino la Svizzera costa meno di noi. Siamo il Paese più caro del mondo».
Daniela Fedi

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il Giornale,

Il lusso made in Italy è ossigeno per il Paese. Il solo alto di gamma relativo agli articoli personali, quindi abbigliamento, cosmetica, accessori, gioielleria e orologeria, vale 56 miliardi di euro (su un mercato mondiale di 223 miliardi), secondo i dati del Monitor Altagamma 2014 realizzato da Bain&co e dalla stessa Fondazione. Ovvero basta il fashion per ripagare i costi dell’energia, visto che il Paese ha speso nel 2013, secondo le stime 2013 dell’Unione Petrolifera, 56,1 miliardi (di cui 30,8 per il petrolio e 20,1 miliardi per il gas naturale). 
Non solo. Il settore, secondo l’ultimo studio Global Powers of Luxury Goods di Deloitte, vanta un vero e proprio primato nel mondo: l’Italia, con 23 aziende sulle 75 prese in considerazione, è il Paese più rappresentato e quello che vanta il tasso di crescita più accelerato (il fatturato nel biennio 2011-2012, l’ultimo esaminato, è salito del 26,9%). D’altro canto nell’immaginario collettivo, la moda è italiana, è simbolo del Belpaese tanto quanto il David di Michelangelo. Non è un caso se «Il diavolo veste Prada» o se Richard Gere, in «American Gigolo», sceglie un completo Armani. L’italian style come simbolo di eleganza, qualità eccellente e attraente design è un dato di fatto riconosciuto nel mondo, a iniziare proprio dai grandi blockbuster americani. Un patrimonio da custodire e valorizzare. Tanto più poi, se si allarga l’orizzonte anche ad articoli non propriamente ritenuti alto di gamma. Abbigliamento, accessori e pelletteria valgono all’incirca 80 miliardi e impiegano, nei trentuno distretti produttivi del settore, oltre un milione di persone. 
Ma non c’è solo la moda di elevata qualità. Il gusto del buono e del bello italiano genera miliardi di fatturato dai vini, dai prodotti gourmet, dalle macchine agli yatch, dal design e infine dagli hotel. Un vero e proprio universo che, secondo gli ultimi dati di Altagamma, vale 103 miliardi in tutto (sugli 865 del mercato mondiale degli articoli di lusso), il 7% circa del Pil, impiega 174mila addetti diretti e altri 317mila indiretti ed esporta poco meno del 50% della produzione. Un patrimonio che si auspica possa crescere ancora. Anche perché sono numerosi i settori su cui si potrebbe ancora fare di più. Se nel design il made in Italy rappresenta l’80% circa del mercato globale (pari a 18 miliardi di euro), colpisce come nell’alimentare e nei vini, emblemi dell’eccellenza italiana nel mondo, la nostra quota di mercato sia ancora modesta (pari al 23% e al 10%). Colpa della frammentazione sul territorio e della mancanza di una visione globale che, spesso e volentieri ci ha fatto perdere terreno di fonte alle multinazionali.
Cinzia Meoni


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il Fatto Quotidiano

Proteste, boicottaggi e petizioni. Sono gli effetti della puntata di domenica di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, sul marchio Moncler e la violenta “spiumatura” delle oche per l’imbottitura dei giubbotti di alta moda. La presidente dell’Ente protezione animali (Enpa), Carla Rocchi, dice: “È una pratica selvaggia. E come Moncler si comportano altre aziende che utilizzano questo materiale. Mi viene da ridere quando provano a difendersi dicendo che adottano un codice etico sulle forniture. Questa filiera non è controllata e non è controllabile. Nessuna azienda che delocalizza nell’Europa dell’est può garantire una produzione etica”.   Dopo l’inchiesta firmata dalla giornalista Sabrina Giannini, l’Enpa ha lanciato una petizione: “Chiediamo alla Commissione europea di mettere al bando la spiumatura delle oche e introdurre controlli per evitare situazioni di illegalità. La petizione è rivolta anche alle aziende e a Confindustria affinché pongano fine alle torture e allo sfruttamento delle oche per le piume e utilizzino finalmente imbottiture sintetiche”. L’Enpa non vuole contrastare soltanto il marchio Moncler ma “tutti i capi di abbigliamento che contengono parti animali”.  
La lega antivivisezione, dopo la puntata di Report, chiede un incontro ai vertici di Moncler per arrivare a scelte commerciali alternative a quelle che prevedono lo sfruttamento degli animali. Simone Pavesi, responsabile moda sostenibile di Lav: “Collaboriamo con molte aziende e riusciamo a ottenere qualche risultato. È inaccettabile che ancora si continui a utilizzare il piumino d’oca invece di tanti altri materiali alternativi, considerando anche che il codice etico di Moncler non fa alcun riferimento alla pratica della spiumatura. Oltre a essere un prodotto poco etico, perché prodotto causando enormi sofferenze per agli animali, non è difendibile neanche dal punto di vista delle prestazioni. A marzo, abbiamo condotto alcuni test di comfort, mettendo a confronto proprio un prodotto Moncler in vera piuma con due prodotti realizzati con materiali alternativi, dimostrando che questi ultimi sono più traspiranti e solo leggermente meno caldi”.   Anche Greenpeace si batte da anni per una produzione sostenibile dei capi di abbigliamento. Chiara Campione è responsabile della campagna Detox: “Tutti i brand hanno impatti ambientali. Sia quelli con prezzi popolari che quelli di fascia alta. Anche il lusso comporta pratiche disumane”. Il problema di immagine per Moncler è evidente anche dalle reazioni sui social network. Il caso è stato uno degli argomenti più discussi su Twitter, dove spopola il parallelismo tra oche e clienti spennati.  
Su Facebook, invece, i toni sono molto più accesi: insulti, minacce di boicottaggi, clienti pentiti e tanta rabbia per l’ipocrisia della delocalizzazione di un marchio che fa dello stile italiano il suo punto di forza.   L’azienda di Remo Ruffini sta vivendo quella che viene definita dagli esperti di comunicazione una “social media crisis”. La dinamica ricorda gli attacchi subiti da Guido Barilla, presidente del gruppo, quando disse che non voleva inserire famiglie gay negli spot della sua pasta. Barilla fu costretto a scusarsi, Ruffini, invece, ancora non commenta.
Fausto Nicastro