Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

La deposizione di Giorgio Napolitano sulla trattativa Stato-mafia è stata inutile? È stata una sceneggiata? È stata dannosa per l’immagine delle istituzioni? Nelle tre ore di testimonianza al Colle il Presidente della Repubblica avrebbe risposto a tutte le domande dei magistrati di Palermo, confermando «l’aut aut di Cosa Nostra allo Stato nel ’93» ma non aggiungendo elementi decisivi per il processo

Il meglio degli articoli di oggi sulla deposizione di Giorgio Napolitano sulla presunta trattativa Stato-Mafia
 
La deposizione di Giorgio Napolitano al Colle «è inutile, dannosa per l’accertamento della verità». Questo giudizio non appartiene a un detrattore del processo sulla trattativa Stato-mafia, bensì ad Antonio Ingroia, il pm che il processo lo ha istruito. Stefano Cappellini: «Per paradosso, stavolta si può essere totalmente d’accordo con Ingroia: l’udienza di ieri al Colle è stata inutile e dannosa, dato che il suo unico effetto concreto è aver permesso all’avvocato di Totò Riina di fare passerella al Quirinale e ipotizzare scenari revisionisti sulla storia d’Italia a uso e consumo del suo cliente» [Cappellini, Mes].
 
Stefano Folli: «Napolitano, per quel che si è saputo, ha risposto in modo esauriente ai quesiti, fingendo di ignorare il carattere alquanto pretestuoso dell’interrogatorio al Quirinale, quasi uno “show” mediatico volto a risollevare le sorti di un processo, quello di Palermo, il cui impianto accusatorio sembra zoppicante. Sarà un caso, ma la parola fatidica (“trattativa”) pare non sia mai stata pronunciata nella Sala del Bronzino. Come se nemmeno i magistrati fossero pienamente convinti di come si sono svolti i fatti vent’anni fa» [Folli S24].
 
Michele Brambilla: «Facciamo un esempio. Pochi minuti dopo la fine della deposizione al Quirinale, molti organi di informazione stranieri hanno titolato, sui loro siti web, più o meno così: “Giorgio Napolitano ascoltato come testimone in un importante processo di mafia”. Una semplificazione giornalistica, certo: ma una semplificazione alla quale i colleghi stranieri sono stati indotti dalla “Disinformatia” messa in scena qui da noi in Italia; e una semplificazione drammatica perché questo è purtroppo quel che rischia di rimanere non solo negli archivi dei giornali stranieri ma anche nella memoria di tanti italiani: che il Presidente della Repubblica è stato sentito come testimone “in un importante processo di mafia”. E che magari sapeva chissà quante e quali cose che per anni ha taciuto» [Brambilla, Sta].
 
Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa Corte di Palermo. Il costituzionalista Michele Ainis: «Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente. Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un resoconto dalla stampa accreditata» [Ainis, Cds].
 
Marco Travaglio: «Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale» [Travaglio, Fat].
 
Ancora Travaglio: «I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi» [Travaglio, Fat].
 
Filippo Facci: «Da quanto inteso, l’esito sta tutto in un paio di righe, eccole qui: Napolitano non ebbe sentori di accordi tra Stato e mafia, non sa che cosa intendesse il suo consigliere Loris D’Ambrosio nel definirsi “utile scriba di indicibili accordi”, e non fu “minimamente turbato” da eventuali attentati che nel 1993 potevano riguardarlo. Tutto il resto della ricostruzione, si perdoni la battuta, si trova in qualsiasi libro di Bruno Vespa» [Faci, Lib].
 
Tuttavia l’impressione finale è che della testimonianza di Napolitano si potesse fare tranquillamente a meno. Folli: «In fondo, chi l’ha voluta con determinazione puntava a mettere il presidente della Repubblica sul banco degli imputati, quanto meno in modo virtuale, così da innescare la miccia di una crisi drammatica. Una volta fallita l’operazione, sia per la serenità d’animo del testimone sia per la gestione dell’udienza, la deposizione in sé ha perso significato» [Folli S24].