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 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

Ecco perché alla vecchia guardia del Pd, da Bersani a Damiano, conviene trattare con Renzi per assicurarsi una rappresentanza in Parlamento anziché rompere e scindersi

Dopo Bersani, che in un’intervista a Repubblica aveva detto che non ha alcuna intenzione di partecipare a un’eventuale scissione della minoranza Pd, anche Damiano, il presidente della Commissione lavoro della Camera che nei prossimi giorni dovrà guidare il primo confronto sul Jobs Act a Montecitorio, si schiera contro l’ipotesi della rottura, nata a cavallo della grande manifestazione della Cgil di sabato.
È del tutto logico che questa sia la posizione prevalente degli oppositori interni di Renzi, anche se i più giovani Fassina e Civati qualche dubbio ce l’hanno. La generazione che un quarto di secolo fa ammainò la bandiera del Pci difficilmente potrebbe accettare di fare il percorso inverso, per riaffacciarsi in un campo – quello della sinistra radicale – diviso e affollato di ambizioni e risentimenti personali.
A modo loro Bersani, D’Alema e il gruppo di post-comunisti usciti sconfitti nella partita con Renzi rivendicano di aver contribuito alla trasformazione in senso riformista del Pds, dei Ds e del Pd e alla costruzione di un centrosinistra di governo, sia pure con risultati alterni e in buona parte incompiuti. Di qui l’orgogliosa rivendicazione dell’appartenenza al partito fondato (meglio, rifondato) da Veltroni, e guidato da Franceschini e Bersani prima dell’attuale premier.
Ma ci sono altre ragioni per cui la minoranza Pd preferisce la battaglia interna alla rottura. La prima è che le scissioni, quando si fanno, si organizzano a ridosso di elezioni, che in questo caso non sono ancora sicure. La seconda è che alla Camera i bersaniani sono convinti di poter contare su rapporti di forza diversi da quelli del Senato: ci sarebbero una trentina di voti di deputati da negoziare e un buco di queste dimensioni metterebbe a rischio l’approvazione del Jobs Act, la riforma più attesa dall’Italia in Europa.
E qui si inserisce la terza ragione per cui la minoranza si prepara a trattare con il segretario. In Parlamento nelle prossime settimane marceranno insieme il Jobs Act e la nuova legge elettorale, che Renzi vorrebbe far approvare entro la fine dell’anno, in una stagione in cui il calendario dei lavori è già gravato dalla legge di stabilità. Si delinea quindi la possibilità di uno scambio tra voto a favore del Jobs Act e modifica dell’Italicum, all’interno del quale Renzi vorrebbe spostare il premio di maggioranza dalla coalizione alla lista, mentre la minoranza, in accordo con gli alleati minori del governo, vorrebbe inserire le preferenze. Le quali, nel clima di rivoluzione permanente che Renzi mantiene nel Pd, rappresentano per la vecchia guardia la garanzia per potersi confrontare sul territorio e tra gli elettori di centrosinistra e assicurarsi una rappresentanza parlamentare, limitando il potere del leader di scegliersi gli eletti.