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 2014  ottobre 28 Martedì calendario

Philip Seymour Hoffman, ritratto di una spia che non si dimentica

Passano gli anni, cadono i muri, cambiano le ideologie, ma il lavoro della spia non muore mai. Ed è sempre il solito, vecchio, sporco lavoro: non quello elegante e supertecnologico degli agenti con «licenza di uccidere», ma quello metodico e «noioso» degli Smiley, degli uomini così anonimi da «confondersi con la tappezzeria». L’ultima incarnazione cinematografica è quella di Günther Bachmann, agente inglese di stanza in Germania, a cui Philip Seymour Hoffman ha saputo dare quel perfetto mix di determinazione e trasandatezza, lucidità e fallibilità che sanno stamparsi nella memoria. Anche perché, all’origine del film e del personaggio c’è un romanzo di quel genio dello spionaggio letterario che si chiama John le Carré: La spia - A Most Wanted Man è infatti la riduzione di Yssa il buono , uscito in Italia nel 2008 per Mondadori. 
E non è certo il solito elogio postumo per l’attore quello che fa dire che molto del fascino del film è tutto sulle spalle di Hoffman, di un’interpretazione fatta di mezzi toni e mezze tinte, capace di svelare i segreti di un uomo dal nodo allentato della cravatta, l’insoddisfazione che si porta dentro dal poco «amore» per il suo corpo (barba sfatta, peso fuori controllo), la paura di un passo falso dallo sguardo mobilissimo e sornione. Non è solo questione di Metodo, di scuola strasberghiana, è capacità di offrire allo spettatore la porta per entrare dentro un «vissuto» dove i dolori sono più grandi delle gioie, gli errori vincono sulle vittorie e le ferite faticano a rimarginarsi. Probabilmente proprio com’è davvero la vita. 
Nel film, a mettere in azione il meccanismo della trama è l’arrivo illegale ad Amburgo di un malconcio combattente ceceno, Yssa Karpov (Grigoriy Dobrygin), in cerca di un ricco banchiere d’affari, Tommy Brue (Willem Dafoe). Ad aiutarlo in quei suoi primi passi clandestini è Annabel (Rachel McAdams), una giovane avvocatessa paladina dei diritti civili. Ed è sulle loro tracce che, con l’aiuto degli assistenti Erna (Nina Hoss) e Max (Daniel Brühl), si mette Bachmann, conscio di come il ribelle ceceno non sia quel terrorista che le autorità tedesche immaginano ma piuttosto il depositario di un «segreto» che lo può mettere sulle tracce di un pesce più grosso, l’enigmatico filantropo Faisal Abdullah (Homayoun Ershadi) sovvenzionatore di attività umanitarie in Medio Oriente ma che forse nasconde qualcosa di meno nobile. 
Una trama già abbastanza complessa si intreccia a questo punto con le gelosie «professionali» di altri servizi segreti — quello tedesco e soprattutto quello americano, nella figura della fredda e determinata agente Cia Martha Sullivan (Robin Wright) — mentre scava nel passato dei vari protagonisti per far emergere tensioni e ambiguità: Karpov e Brue devono entrambi fare i conti con i fantasmi dei rispettivi padri, uniti dall’avidità e dai comportamenti illegali; Abdullah non sa che l’amato figlio Jamal (Mehdi Dehbi) non lo ricambia con la stessa fiducia; Bachmann non riesce a dimenticare un fallimento operativo che è costato la vita ad alcune persone e che lo fa tenere sotto scacco dagli alleati… 
Guidato dalla lucidità narrativa di le Carré (e dalla sceneggiatura di Andrew Bovell) il film diretto con corretto professionismo da Anton Corbijn mescola così le piste e gli indizi, usando il meccanismo spionistico per offrirci uno specchio piuttosto veritiero e per niente lusinghiero di quello che si può fare «in nome della legalità» mentre aiuta a far luce su quello che può nascondersi dietro la faccia elegante e rispettabile dell’Occidente. Certo, alla fine qualche passaggio logico meritava di essere approfondito, ma la spia di Seymour Hoffman è di quelle che non si dimenticano, specie di fronte al colpo di scena finale.