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 2014  ottobre 28 Martedì calendario

Il crollo delle quotazioni del petrolio del 25% in quattro mesi ha già iniziato a erodere i margini delle grandi compagnie. Ma per l’economia è un vantaggio...

Ormai è un fenomeno che le compagnie petrolifere non possono più permettersi di ignorare. La caduta delle quotazioni del greggio, di quasi il 25% negli ultimi quattro mesi, quasi certamente ha già lasciato il segno sui bilanci trimestrali delle major, che saranno pubblicati a partire da oggi (ad aprire le danze è Bp, mentre ultime saranno ExxonMobil e Chevron venerdì). Per Big Oil tuttavia i veri grattacapi riguardano il futuro, a meno di una rapida inversione di rotta dei mercati petroliferi, che giorno dopo giorno sembra sempre più improbabile.
Un numero crescente di analisti sta sposando la teoria che i prezzi resteranno depressi a lungo e Goldman Sachs ha appena tagliato di ben 15 dollari al barile le sue stime: ora si attende un prezzo medio di 85 $ per il Brent nel primo trimestre 2015 e una possibile caduta a 80 $ nel trimestre successivo (per il Wti la previsione è 75 $, con una discesa a 70 $).
Il greggio europeo, il benchmark più diffuso nel mondo, ieri è sceso fino a 84,55 $/barile, a un paio di dollari dai minimi da quattro anni (82,60 $, toccati il 16 ottobre). Dal 10 settembre non ha mai più scambiato sopra 100 dollari, neppure per un minuto, e dal 14 ottobre non è più risalito sopra 90 dollari.
Ce n’è abbastanza per allarmarsi. Anche perché le eredi delle Sette sorelle già non se la passavano troppo bene, neppure col greggio a 100 dollari e passa. Secondo Morgan Stanley l’anno scorso, con il Brent a 110,80 dollari in media, le sette maggiori compagnie integrate occidentali (Royal Dutch Shell, Bp, ExxonMobil, Chevron, Total, Eni e Statoil) avevano registrato un deficit collettivo di 55 miliardi di dollari. Il cash flow operativo ammontava infatti a 207 miliardi, a fronte di investimenti (capex) per 209 miliardi e 53 miliardi di dividendi. Una situazione difficile, alla quale le compagnie hanno già iniziato a reagire, tagliando i costi, ma – più spesso – indebitandosi o varando imponenti piani di dismissioni: Carlyle International Energy Partners stima che nel settore ci siano già sul mercato asset per circa 300 miliardi di $ (Shell e Bp da sole hanno un piano di vendite per 60 miliardi).
I problemi arriva da lontano: per trovare nuovi giacimenti le compagnie devono ormai affrontare sfide sempre più difficili e costose, con risultati che spesso non sono all’altezza delle aspettative. Tra pozzi offshore, trivellazioni nell’Artico e shale oil, il settore è arrivato a investire la cifra record di 723 miliardi di $ quest’anno, stima Barclays, ma la produzione, soprattutto quella delle major, non riesce a stare al passo con gli sforzi: le sette grandi nel 2003 estraevano 11,5 milioni di barili al giorno di petrolio e liquidi assimilabili, il 14,5% della produzione mondiale, dieci anni dopo sono scese a 9,5 mbg (10,4%). La redditività del capitale investito, secondo Douglas Westwood, cala ogni anno del 5 per cento.
Col petrolio in discesa tutto si complica ulteriormente. Charles Whall, fund manager di Investec Asset Management, è tranchant: «È chiaro che il settore non si regge in piedi con il petrolio sotto 100 $». E le major europee stanno addirittura peggio: a loro, avverte Goldman Sachs, servirebbero 122 $/barile nel 2015 per proteggere i flussi di cassa. Se l’obiettivo è tornare a generare il 4,5% di free cash flow entro il 2018, riallineandosi alla media storica, bisognerà stringere la cinghia: col petrolio a 90 $, stima la banca, bisogna tagliare il capex del 13%, con 80 $ ci vuole un taglio del 20 per cento.
Si tratta di fare scelte dolorose e negli uffici delle compagnie petrolifere, c’è da scommetterci, hanno già cominciato a rifare affannosamente i conti, rivalutando progetti di investimento varati quando nessuno pensava di rivedere quotazioni del petrolio a due cifre.
Sissi Bellomo
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Il prezzo del petrolio Brent, la qualità di riferimento dell’Europa, è sceso a 85 dollari per barile, 20 dollari in meno della soglia intorno alla quale ha oscillato per due anni. Oltre al rallentamento della domanda, la caduta è dovuta al costante aumento dell’offerta che sta rispondendo finalmente agli alti prezzi. Nel 2004 erano a 38 dollari e tutti si chiedevano quanto intensa sarebbe stata la recessione nel caso fossero saliti stabilmente oltre i 50. Negli anni successivi, la domanda asiatica e la finanza li spinsero addirittura a 140 dollari nel luglio del 2008, senza causare alcun shock stile anni ’70. Ci sono voluti 10 anni per far adeguare l’offerta ai segnali dei prezzi, in quanto sono questi i tempi tecnici minimi per trovare nuovi giacimenti e per portarli a produzione. Ancora più lunghi sono i tempi delle tecnologie: come quella del fracking, dietro al boom della produzione Usa, che è partita più di 30 anni fa, mettendo insieme la perforazione orizzontale e la produzione assistita. In ogni sobbalzo dei prezzi del barile c’è sempre una dose di politica, come in questi giorni. La produzione dal Medio Oriente, dove si concentra quasi il 50% delle riserve mondiali di petrolio con costi di estrazione di 5 dollari, continua a salire, nonostante il disfacimento politico e militare del nord Iraq, mentre dal sud crescono le esportazioni. L’Arabia Saudita non vuole difendere i prezzi per non perdere quote di mercato e, come spesso accaduto negli ultimi 40 anni, vuole danneggiare l’Iran, che nel frattempo si sta riavvicinando agli Usa. Nel Nord Africa, la disastrata Libia, a quasi 4 anni dall’inizio delle primavere arabe, sta lentamente riportando la sua produzione su valori non raggiunti da un anno. Politica, mercato, tecnologia stanno finalmente portando buone notizie a consumatori, soprattutto quelli italiani.
I prezzi dei carburanti in Italia sono in caduta, con la benzina scesa sotto 1,75 € e il gasolio sotto 1,63 € per litro ma, causa una vischiosità raramente vista in passato, ci sono spazi per ulteriori cali dell’ordine di 4 centesimi per litro. Ormai possiamo assumere come stabile una riduzione di almeno 10 €cent su base annua che, moltiplicati per i 40 miliardi di litri di carburanti venduti, comportano un taglio di 4 miliardi € della spesa dei consumatori italiani. Il crollo dei prezzi della benzina si farà sentire con un nuovo ribasso sul tasso di inflazione, confermando lo stato di deflazione in cui sta affogando la nostra economia. Meno contento sarà il Tesoro, in quanto l’Iva si calcola su un prezzo inferiore e ciò determina minori entrate, già scese per la caduta dei volumi consumati: in totale il calo dovrebbe essere dell’ordine di 2 miliardi €.
Alle contrazioni dei prezzi alla pompa, occorre aggiungere i risparmi per le altre importazioni di energia, a partire dal gas, il cui prezzo dipende ancora strettamente da quello del petrolio. Il gas serve direttamente alle imprese per i processi industriali e queste potranno godere di riduzioni a partire dal prossimo mese. Il gas va anche alle centrali elettriche e i minori costi spingeranno di nuovo al ribasso i prezzi dell’elettricità che, però, rimarranno sempre superiori di un 30% al resto d’Europa. Tenendo conto dell’effetto complessivo sulla bilancia energetica, è possibile stimare un beneficio di circa 10 miliardi di € di minori importazioni di cui potrà beneficiare l’asfittica domanda interna delle famiglie e delle imprese.
Davide Tabarelli