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 2014  ottobre 28 Martedì calendario

Travaglio sul Fatto: «Il Corriere ha chiesto che i giornalisti possano assistere alla scena, mai accaduta prima, di un capo dello Stato italiano sentito come teste in un processo di mafia. Una richiesta di trasparenza condivisibile, ma supportata da motivazioni assurde: “conviene alla massima istituzione del Paese” per evitare “interpretazioni strumentali, illazioni fuorvianti, inquinamenti della realtà". Cioè: la stampa dev’essere presente non per informare i cittadini di ciò che dirà o non dirà il Presidente ma per salvargli la faccia dalla “spettacolarizzazione del processo”. Come se ci fosse bisogno di inventarli, gli scandali. Come se la stampa più serva del mondo (in fondo alle classifiche della libertà d’informazione) si divertisse a mettere in cattiva luce il Presidente (ma quando mai). Come se il compito dei giornali fosse di surrogare l’ufficio stampa del Colle»

   L’altro giorno anche i giornali italiani hanno celebrato Ben Bradlee, il leggendario direttore del Washington Post scomparso a 93 anni che era entrato nella storia del giornalismo e della politica pubblicando i Pentagon Papers sulla sporca guerra in Vietnam e poi l’inchiesta di Bernstein & Woodward che scoperchiò lo scandalo Watergate e abbatté il presidente Nixon, sempre in barba alla ragion di Stato e in nome della ragion di cronaca. Sono gli stessi giornali che da due anni tacciono su uno scandalo che fa impallidire il Watergate e riguarda non la Casa Bianca, ma il Quirinale a proposito della trattativa fra lo Stato e la mafia. Hanno nascosto il ruolo di Giorgio Napolitano nelle manovre del consigliere D’Ambrosio per sottrarre l’inchiesta alla Procura di Palermo. Hanno ribaltato la verità, trasformando i pm da vittime in aggressori del Colle. Hanno chiesto a gran voce la distruzione delle telefonate Napolitano-Mancino, onde evitare il rischio di inciampare in una notizia e di doverla pubblicare. Hanno sorvolato sulla vergogna di uno Stato che, tramite i suoi massimi rappresentanti, non ha mai solidarizzato con i pm condannati a morte da Riina, depistati e minacciati con pizzini e strane visite in case e uffici da uomini di servizi e apparati (deviati, si fa per dire). Si sono arrampicati sugli specchi per sostenere l’insostenibile esclusione degli imputati dall’udienza al Quirinale per la testimonianza di Napolitano dinanzi alla Corte d’Assise, ai pm e ai legali degli imputati. E ora non dicono una parola sull’ultima vergogna: il divieto di accesso e di ascolto in quell’udienza imposto dal Quirinale alla stampa (cioè ai cittadini).  
Solo il Corriere e solo ieri è intervenuto per chiedere che i giornalisti possano assistere alla scena, mai accaduta prima, di un capo dello Stato italiano sentito come teste in un processo di mafia. Una richiesta di trasparenza condivisibile, ma supportata da motivazioni assurde: “conviene alla massima istituzione del Paese” per evitare “interpretazioni strumentali, illazioni fuorvianti, inquinamenti della realtà, suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto di D’Ambrosio e in una sfida tra poteri... in grado di ledere il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale”. Cioè: la stampa dev’essere presente non per informare i cittadini di ciò che dirà o non dirà il Presidente sulla pagina più nera della storia recente, ma per salvargli la faccia dalla “spettacolarizzazione del processo” (che peraltro, per legge, sarebbe pubblico), da “letture manipolate e virali” dei “professionisti della controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli”. Come se ci fosse bisogno di inventarli, gli scandali. Come se la stampa più serva del mondo (in fondo alle classifiche della libertà d’informazione) si divertisse a mettere in cattiva luce il Presidente (ma quando mai). Come se il compito dei giornali fosse di surrogare l’ufficio stampa del Colle.  
Naturalmente il Corriere ce l’ha col Fatto, che ha il brutto vizio di scrivere quello che gli altri occultano e financo “accostare la testimonianza del presidente perfino al caso Clinton-Lewinsky”. Già: il paragone è azzardato. Infatti Clinton doveva rispondere dei suoi rapporti orali con una stagista, non degli “indicibili accordi” fra Stato e mafia (orali e scritti in un papello) che il suo consigliere afferma di aver confidato a Napolitano. Il video dell’interrogatorio di Clinton dinanzi al procuratore Starr fece il giro del mondo, su tutte le tv e i siti Internet, e qualche miliardo di persone poté farsi un’idea della sincerità del presidente Usa da ogni smorfia e piega del suo volto. Invece la deposizione di Napolitano non la vedrà nessuno, perché non sarà neppure filmata. Far notare questo sconcio, per il Corriere, è roba da “quarto potere che gioca sul vittimismo” e “deraglia dalle regole base della deontologia”. Chissà come avrebbe reagito il vecchio Ben Bradlee se i nostri maestrini di deontologia gli avessero spiegato il giornalismo come manutenzione al monumento equestre di un presidente.