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 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

Renzi attacca i dissidenti del Pd dal palco della Leopolda e avverte: «Non restituirò il partito a chi lo vuole riportare al 25%». La scissione è sempre più vicina, Civati fa sapere che deciderà a breve, Fassina si sente già fuori e Cuperlo incolpa il premier: «Se ci sarà la spaccatura sarà colpa sua»

Il meglio degli articoli di oggi sulla chiusura della Leopolda e sulla spaccatura ormai sempre più netta tra Matteo Renzi e la minoranza del Pd.
 
«Non consentiremo a quella classe dirigente di riprendersi il Partito democratico e di riportarlo dal 41% al 25%, non consentiremo di fare del Partito democratico il partito dei reduci». Così Matteo Renzi ha chiuso ieri la tre giorni della Leopolda. Francesco Alberti: «Il premier cala il carico pesante. Gli è andato decisamente di traverso quel termine (“imbarazzante”) con il quale Rosy Bindi ha bollato dal corteo della Cgil la Leopolda fiorentina. Vecchia guardia o notabili, comunque li si voglia chiamare, si mettano l’animo in pace: se “il futuro è solo l’inizio” – come recita lo slogan di questa quinta Leopolda – loro ne resteranno ai margini, almeno fino a quando il partito sarà guidato da Renzi» [Alberti, Cds].
 
Secondo Stefano Folli alla Leopolda di Firenze abbiamo assistito alla Bad Godesberg di Renzi. «Finisce un mondo. Non solo quello in cui la Cgil e la sinistra di derivazione comunista erano titolari dell’unico potere inattaccabile nell’Italia sfilacciata dell’ultimo ventennio: il potere di veto. Finisce anche il Pd così come l’aveva immaginato e costruito Romano Prodi. Un Pd che teneva insieme, magari in modo velleitario, diverse culture politiche e si sforzava di essere la “casa comune” di ex comunisti, cattolici di sinistra, più qualche liberal-democratico e altrettanti socialisti. Gente che non arrivava mai oltre il 25 per cento, dice oggi sprezzante il premier che è anche segretario di un nuovo Pd in rapida trasformazione, già oggi totalmente diverso da quello di uno o due anni fa» [Folli, S24].
 
Ascoltato il discorso della Leopolda, Gianni Cuperlo accusa Renzi di populismo: «Quando usa l’articolo 18 e dice che parlare delle norme che tutelano dal licenziamento è come voler mettere un gettone nell’iPhone, offende il milione di persone che hanno riempito le vie di Roma. Questo non va bene. Il punto è se tu, per uscire dalla crisi più grave del secolo, lavori per unire il Paese e non per dividerlo». La scissione è in atto? «Io voglio innovare il Pd e per questo voglio correggere una linea dai riflessi antichi. La scissione sarebbe una sconfitta del progetto nel quale abbiamo creduto e sta a tutti evitare di precipitare lì, ma è chiaro che Renzi ha una responsabilità enorme» [Monica Guerzoni, Cds].
 
Pippo Civati invece fa sapere: «Decido se andare via dal Pd nelle prossime settimane. Ma la verità è che è già tutto deciso, ha già scelto Renzi... Ci porterà al voto, altrimenti non avrebbe ingaggiato un duello del genere con il suo partito». Da Firenze volano ceffoni contro i “reduci” dem… «Doveva essere la Leopolda della maturità, è stata quella storicamente più a destra, disinvolta e aggressiva. Il premier ha provocato, usando espressioni molto corrive. Un approccio destrorso, in linea forse con la pancia del Paese. L’iPhone e il gettone, ma può trattare così chi non la pensa come lui? Come fosse gente del paleolitico? Comunque ho provato con il mio iPhone, il gettone non entra...» [Tommaso Ciriaco, Rep].
 
I rapporti all’interno del Pd sono sempre più logorati, nessuno ha più il timore di pronunciare la parola scissione. Goffredo De Marchis: «Ma non è finita fin quando non è finita. E non siamo ancora arrivati al traguardo. Che però è vicino. Il terreno di scontro decisivo è il Jobs Act in discussione alla Camera. Ossia il lavoro, il tema dei temi per capire se la sinistra cambia nel profondo, se si dà un nuovo profilo culturale. Ai suoi collaboratori il premier ha detto che non vuole cambiare “nemmeno una virgola del Jobs Act a Montecitorio”. La piazza e le sue richieste verranno saltate a pie’ pari. “Credo che alla fine lo sciopero generale ci sarà, ma non mi fermo”» [De Marchis, Rep].
 
Per Matteo Orfini il Pd in piazza con la Cgil e quello della Leopolda «sono lo stesso partito. Non drammatizziamo la divisione di sabato». Il rischio scissione è reale? «Il semplice fatto che se ne parli così di frequente significa che il rischio c’è. Per questo dobbiamo evitare discussioni strumentali e cercare di recuperare il senso di comunità che stiamo perdendo». L’obiettivo è il partito della nazione? «Dobbiamo allargare il Pd, ma non lo chiamerei partito della nazione. Siamo il Pd, che sta nel Pse, questi sono i nostri confini: se vieni nel Pd lo fai per fare una battaglia di sinistra. E non per ridurre il diritto di sciopero» [Francesca Schianchi, Sta].
 
Molto dura invece Rosy Bindi, intervistata da Francesca Schianchi: «Trovo imbarazzante che la classe dirigente del Pd fosse da un’altra parte rispetto al Pd, a fare una manifestazione finita su tutti i media quando in un anno non ne ha mai organizzata una di partito che avesse la stessa risonanza e le stesse possibilità di confronto. Perché si va alla Leopolda a elaborare il progetto per l’Italia? Perché Renzi prima occupa una casa e poi la svuota?». Perché, secondo lei? «La risposta che mi do è che ci sia un altro progetto in campo: come molti hanno detto, questo è il partito della nazione» [Schianchi, Sta].
 
Scrive Maria Teresa Meli che i rappresentanti della minoranza interna del Pd che sabato hanno sfilato a Roma non fanno paura al premier, anzi gli fanno gioco. «Ecco, loro, per Renzi non rappresentano un problema. Primo perché “non avere nemici a sinistra” o, quanto, meno “concorrenti”, non è mai stato il suo assillo. Secondo, perché il premier non crede che Maurizio Landini formerà con quest’area un nuovo partito. E non solo perché Renzi, nonostante sia lontano anni luce dal leader della Fiom, lo considera “una persona seria”. E quindi gli crede quando dice, quasi infastidito, che a lui “interessa lavorare nel sindacato” e non “occuparsi di politica”. Ma perché ritiene che comunque non imbarcherebbe quella compagnia» [Meli, Cds].
 
Ancora la Meli: «Chi ha studiato bene le mosse di Renzi nei confronti della Cgil in questo periodo ha tratto l’idea che il premier abbia scientemente spinto Susanna Camusso all’inseguimento del leader della Fiom per consentire a Landini di portare avanti il suo vero progetto, ossia quello di lanciare un’Opa sulla Cgil. Già, perché infatti, ormai tra Renzi e Camusso sembra quasi una questione personale.
I due si stanno antipatici» [Meli, Cds].
 
Concita De Gregorio: «Domenica è il giorno in cui arrivano sul palco la destra della sinistra — Andrea Romano, ex Scelta civica — e la sinistra che preferisce «essere minoranza che essere opposizione », quella di Gennaro Migliore e dei suoi undici fuorusciti da Sel che oggi presenteranno una lettera collettiva per entrare, come gruppo, nel Pd» [Concita De Gregorio, Rep].
 
«Questo manifesto della sinistra da “unfinished revolution” (da rivoluzione infinita, per usare il titolo di un classico del pensiero blairiano, firmato a suo tempo da Philip Gould, e cioè una sinistra che non contempla la propria immagine nello specchietto retrovisore) lo riassume così Francesco Clementi, costituzionalista renziano della prima ora, seduto a metà sala nella Leopolda: “È come nel rugby. Per Renzi l’obiettivo è la meta e non semplicemente il gol. Si avanza tutti insieme passandosi la palla all’indietro per portarla in avanti”» [Mario Ajello, Mes].
 
Jacopo Iacoboni: «Qualcuno dice elegantemente Big Tent – la grande tenda alla Tony Blair – qualcun altro Arca di Noè, Andrea Romano cita Jovanotti, “sogno una grande chiesa, da Che Guevara a Madre Teresa”, Renzi dice “siamo quelli delle porte aperte, non quelli che ti cacciano fuori”, comunque sia una circostanza clamorosa al Cibali c’è: un centrosinistra che si espande. Fino al rischio dell’ossimoro» [Iacoboni, Sta].
 
Stefano Folli: «Ora l’interrogativo è: bastano le parole d’ordine nuoviste e un discorso spavaldo per sedurre e catturare l’elettorato di centro e di centro-destra, quello a cui esplicitamente Renzi guarda? Forse sì, data l’assoluta assenza di alternative. Ma le incognite della svolta non sono poche. E non riguardano la malinconica sopravvivenza di un piccolo mondo antico, bensì la capacità di governare l’Italia in tempi calamitosi, quando un certo grado di populismo è inevitabile, ma un eccesso di demagogia può essere fatale» [Folli, S24].
 
Concita De Gregorio: «Per il momento sono più quelli che arrivano che quelli che escono, dalla vecchia stazione di Firenze travestita da garage. Renzi promette di trovare in Mozambico risorse energetiche fino al 2046 e di governare fino al 2023. Se c’è qualcuno in giro che può promettere di meglio è il suo momento, si faccia avanti. In politica la scelta dei tempi è tutto, o almeno parecchio. Nella lunga lista di quelli che Renzi chiama reduci sono in tanti a saperlo» [De Gregorio, Rep].