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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

Così Matteo Renzi vuole un partito unico, uno che riunisca tutte le coalizioni di sinistra. Sul modello americano il premier realizza i sogni di Veltroni

Da una decina d’anni qualche osservatore sottolinea il paradosso che gira attorno al Pd e alle coalizioni di sinistra, che si chiamassero Gad, Unione o roba simile: che senso ha mantenere la struttura del partito se la legittimazione al leader discende dal voto popolare attraverso le primarie? Cioè, che senso ha l’intermediazione del partito se il rapporto con l’elettore è diventato diretto, ed è l’elettore a scegliere il candidato sindaco, il candidato governatore, il candidato premier? Se ne discusse un poco fra il 2007 e il 2008, quando il Pd nacque con l’investitura (mediante primarie) di Walter Veltroni, che al partito voleva consegnare una vocazione maggioritaria. Si parlava di partito liquido - con le conseguenti ironie di chi soprattutto non pareva attrezzato a cogliere l’aria mutata - cioè di un partito che abbandonasse l’armamentario di tessere, quadri, sedi, e si muovesse agilmente in un mondo dall’andamento frenetico. Si impegnavano paragoni con i partiti americani, quello repubblicano e quello democratico, che tessere e quadri e sedi non sanno che siano, e hanno giusto un’organizzazione da comitato elettorale permanente. Poi Veltroni non ce la fece, troppe opposizioni interne, non poche titubanze, e mediazioni disastrose come quella che lo condusse a metà del guado fra la sua idea di bipartitismo e quella prodiana di grande ammucchiata: si alleò con Antonio Di Pietro, che subito dopo le elezioni istituì in Parlamento il gruppo dell’Idv, e si portò con sé i radicali, con cui il filarino non andò benissimo. 
Però la direzione era giusta e se n’è avuta conferma alla direzione del Pd, quando Matteo Renzi ha appoggiato l’ipotesi di attribuire alla lista e non alla coalizione il premio di maggioranza, e non per caso lo ha notato e sottolineato Europa. Se il premio di maggioranza va alla lista, e dunque al partito, la coalizione non ha più ragioni sociali: inutile mettere insieme quella carovana fracassona con comunisti, verdi, cattolici, giustizialisti, garantisti, società civile, professionisti della sezione, tutti concentrati sull’impresa di dare un senso al loro simboletto, se necessario con la guerriglia. Invece di aprire la coalizione, l’idea di Renzi è di aprire il partito: dentro chi vuole, lo spazio c’è, dentro gli ex vendoliani di Sinistra e libertà, dentro i cattolici di Per l’Italia, dentro Scelta civica, e se vuole benvenuto a Marco Pannella, a ex grillini e, per gli amanti del prontuario medico della politica, benvenuti a ex Api, Centro democratico, socialisti, popolari di centrosinistra... Tanto ora si può fare perché la vera novità del dominio renziano è che dal partito si è esteso al governo e si è preso tutto. Pareva l’errore madornale, mai nessuno aveva conservato da Palazzo Chigi la leadership del partito. Una cosa era il segretario e un’altra il premier. E invece Renzi si è preso il modello americano per cui il candidato alla presidenza (sempre via primarie) è automaticamente il leader del partito, lo sarà anche dalla Casa Bianca e, finché dura, spadroneggia. E Renzi spadroneggia di già, e lo teorizza, perché ha vinto le primarie e ha preso il 41 per cento alle Europee.
E’ sempre complicato paragonare la nostra politica con qualsiasi altra, ma il Pd che frulla nella testa di Renzi ha sempre più l’aria del partito americano: un capo indiscusso, che decide priorità e dottrina, e una lista sostenuta e finanziata da gruppi di varia ispirazione, religiosa o economica o sociale o generazionale, e infatti nei democratici di Barack Obama convivono liberisti, pro-gay, antiabortisti, apostoli irriducibili del possesso privato di armi, interpreti di interessi territoriali. Un’organizzazione del genere qui è ancora improponibile, perché c’è una solida tradizione partitica e di fazione, e perché prevede una totale assenza di mandato parlamentare: senatori e deputati americani rispondono soltanto all’elettore, non certo al Matteo Renzi di passaggio e alle sue esigenze. E però si guarda da quella parte. Nei prossimi giorni, Renzi sarà a due cene in cui il posto a tavola costa mille euro, e il cui obiettivo dichiarato è raccoglierne un milione per il Pd, un sacrilegio berlusconiano per la sinistra, una strategia anticamente americana per il premier: si comanda se ti danno il voto, e se ti danno di che campare si comanda anche meglio.
Da una decina d’anni qualche osservatore sottolinea il paradosso che gira attorno al Pd e alle coalizioni di sinistra, che si chiamassero Gad, Unione o roba simile: che senso ha mantenere la struttura del partito se la legittimazione al leader discende dal voto popolare attraverso le primarie? Cioè, che senso ha l’intermediazione del partito se il rapporto con l’elettore è diventato diretto, ed è l’elettore a scegliere il candidato sindaco, il candidato governatore, il candidato premier? Se ne discusse un poco fra il 2007 e il 2008, quando il Pd nacque con l’investitura (mediante primarie) di Walter Veltroni, che al partito voleva consegnare una vocazione maggioritaria. Si parlava di partito liquido - con le conseguenti ironie di chi soprattutto non pareva attrezzato a cogliere l’aria mutata - cioè di un partito che abbandonasse l’armamentario di tessere, quadri, sedi, e si muovesse agilmente in un mondo dall’andamento frenetico. Si impegnavano paragoni con i partiti americani, quello repubblicano e quello democratico, che tessere e quadri e sedi non sanno che siano, e hanno giusto un’organizzazione da comitato elettorale permanente. Poi Veltroni non ce la fece, troppe opposizioni interne, non poche titubanze, e mediazioni disastrose come quella che lo condusse a metà del guado fra la sua idea di bipartitismo e quella prodiana di grande ammucchiata: si alleò con Antonio Di Pietro, che subito dopo le elezioni istituì in Parlamento il gruppo dell’Idv, e si portò con sé i radicali, con cui il filarino non andò benissimo. 
Però la direzione era giusta e se n’è avuta conferma alla direzione del Pd, quando Matteo Renzi ha appoggiato l’ipotesi di attribuire alla lista e non alla coalizione il premio di maggioranza, e non per caso lo ha notato e sottolineato Europa. Se il premio di maggioranza va alla lista, e dunque al partito, la coalizione non ha più ragioni sociali: inutile mettere insieme quella carovana fracassona con comunisti, verdi, cattolici, giustizialisti, garantisti, società civile, professionisti della sezione, tutti concentrati sull’impresa di dare un senso al loro simboletto, se necessario con la guerriglia. Invece di aprire la coalizione, l’idea di Renzi è di aprire il partito: dentro chi vuole, lo spazio c’è, dentro gli ex vendoliani di Sinistra e libertà, dentro i cattolici di Per l’Italia, dentro Scelta civica, e se vuole benvenuto a Marco Pannella, a ex grillini e, per gli amanti del prontuario medico della politica, benvenuti a ex Api, Centro democratico, socialisti, popolari di centrosinistra... Tanto ora si può fare perché la vera novità del dominio renziano è che dal partito si è esteso al governo e si è preso tutto. Pareva l’errore madornale, mai nessuno aveva conservato da Palazzo Chigi la leadership del partito. Una cosa era il segretario e un’altra il premier. E invece Renzi si è preso il modello americano per cui il candidato alla presidenza (sempre via primarie) è automaticamente il leader del partito, lo sarà anche dalla Casa Bianca e, finché dura, spadroneggia. E Renzi spadroneggia di già, e lo teorizza, perché ha vinto le primarie e ha preso il 41 per cento alle Europee.
E’ sempre complicato paragonare la nostra politica con qualsiasi altra, ma il Pd che frulla nella testa di Renzi ha sempre più l’aria del partito americano: un capo indiscusso, che decide priorità e dottrina, e una lista sostenuta e finanziata da gruppi di varia ispirazione, religiosa o economica o sociale o generazionale, e infatti nei democratici di Barack Obama convivono liberisti, pro-gay, antiabortisti, apostoli irriducibili del possesso privato di armi, interpreti di interessi territoriali. Un’organizzazione del genere qui è ancora improponibile, perché c’è una solida tradizione partitica e di fazione, e perché prevede una totale assenza di mandato parlamentare: senatori e deputati americani rispondono soltanto all’elettore, non certo al Matteo Renzi di passaggio e alle sue esigenze. E però si guarda da quella parte. Nei prossimi giorni, Renzi sarà a due cene in cui il posto a tavola costa mille euro, e il cui obiettivo dichiarato è raccoglierne un milione per il Pd, un sacrilegio berlusconiano per la sinistra, una strategia anticamente americana per il premier: si comanda se ti danno il voto, e se ti danno di che campare si comanda anche meglio.