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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

L’ingresso nella vita adulta dei nostri figli, che coincide con la fine degli studi, il lavoro, una famiglia, si è spostato dieci anni in avanti. E l’Italia batte tutti con il 40 per cento dei 30-34enni che vive in una perenne condizione di figli

Bisogna aggiungere un cinque, ma più spesso un dieci. Numeri, cioè anni, che d’ora in poi dovremo sommare ai compleanni dei ventenni attuali e futuri, per calcolare quando e come la nuova e complicata generazione X diventerà finalmente “grande”. Perché la rivoluzione della clessidra della vita non riguarda più soltanto gli anni grigi, e cioè la longevità della terza e quarta età, ma sempre di più l’accesso dei giovani all’età adulta, categoria ormai quasi del tutto “scissa” dai propri dati anagrafici. Se infatti nel secolo scorso si diventava “grandi” a 20 anni, adesso nel rimescolamento di crisi sociali e stili di vita, quel traguardo si è spostato di cinque anni in avanti nei paesi anglosassoni, e quasi di dieci nei paesi latini. E l’Italia nella “posticipazione” batte tutti, con il record del 40 per cento di giovani adulti tra i 30 e i 34 anni che continuano a vivere, e non sempre felicemente, nella casa dei genitori, in una perenne condizione di figli. A calcolare quanto si fosse spostato l’ingresso dei giovani nell’età adulta, ci aveva provato Lancet già nel 2012, pubblicando una serie di ricerche che dimostravano come i ventiquattro anni di oggi fossero i ventuno di ieri. Adesso con un saggio sul magazine americano The Atlantic, demografi e sociologi dimostrano che quel limite va fatto salire ancora, perché l’autonomia di un ventenne di ieri (lavoro, denaro, famiglia, figli) oggi si riesce a conquistare non prima dei venticinque, ma spesso ancor più tardi. Sono le tappe della vita autonoma ad essere diventate sempre più incerte, come spiega Alessandro Rosina, docente di demografia all’università Cattolica di Milano. «Esistono cinque fasi che tradizionalmente segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. La fine del percorso di studio, l’andare a vivere da soli, l’ottenimento di un lavoro, la costruzione di una vita di coppia e l’arrivo del primo figlio. Tutto questo un tempo avveniva effettivamente intorno ai 25 anni... Oggi invece — aggiunge Rosina — assistiamo ad una “regressione”: l’impossibilità di avere un reddito e dunque di uscire dalla casa di famiglia, obbliga i giovani ad una permanenza sempre più lunga nella condizione di figli, magari continuando a studiare, senza però potersi sperimentare nella condizione adulta». Una dimensione sospesa e contraddittoria. Perché invece, da bambini, questi stessi giovani-adulti nati alla fine del secolo scorso, l’infanzia l’hanno bruciata in fretta. È quello che sottolinea Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, conoscitore attento delle vite di ragazzini e adolescenti. «I bambini vengono spinti a crescere velocemente, si cerca in tutti i modi di renderli autonomi, basta entrare in una quinta classe elementare per rendersene conto. Hanno le chiavi di casa, il cellulare, i soldi in tasca, c’è una anticipazione della pubertà, una precocità, una sessualità che arriva sempre prima. Una corsa che dura anche negli anni del liceo, come se si dovessero bruciare le tappe. E poi, invece, tutto si ferma ». Infatti. Accade tra i venti e i trent’anni. Perché già all’università ci si rende conto che il futuro è buio. O quantomeno fragile, incerto, povero. Il lavoro è un miraggio, l’indipendenza ancora di più. «È come se la rincorsa finisse — dice con amarezza Charmet — e i giovani si ritrovassero a sopravvivere in un eterno posteggio. Magari accumulando titoli su titoli. In case aperte dove è possibile vivere i propri amori, avere un po’ di soldi in tasca, ma in un eterno presente, perché le risorse per diventare grandi, e andarsene, essere autonomi, non ci sono. Così accade che si smetta di pensare al futuro, mentre gli anni passano, e in agguato ci sono depressione e scoraggiamento ». Un immenso spreco del capitale umano. Del resto i numeri italiani sui “Neet” sono la radiografia di una vera emergenza sociale. Tre milioni di venti-trentenni che non studiano né lavorano, né cercano più una strada per il domani. Non la maggioranza per fortuna, come testimoniano i dati del “Rapporto Giovani” curato da Alessandro Rosina, dove l’85 per cento degli intervistati afferma che «vorrebbe maggiore autonomia per mettersi alla prova con se stesso», il 57 per cento «non vorrebbe più sentirsi un peso per la famiglia». Mentre ciò che accade nella realtà, è che il 67 per cento dei giovani dopo essere riusciti ad uscire per un periodo dalla famiglia, «sono costretti a fare marcia indietro e tornare dai genitori». Rosina: «Alle spalle di questa posticipazione infinita, che fa slittare anche a trent’anni l’età della maturità, il dato materiale si somma a quello psicologico. Se da una parte infatti c’è il desiderio dell’autonomia, per questa generazione è invece cambiato il concetto di responsabilità. Non c’è la voglia di vincolarsi troppo con una famiglia, un figlio, ma piuttosto di sperimentarsi. Un rinvio dunque, che però con l’avvento della crisi è diventato molto spesso una rinuncia». E se la condizione sospesa dei ventenni è ormai un dato comune a tutti i paesi occidentali, c’è però un “ingrediente” che da noi contribuisce a complicare le cose. «La famiglia italiana — racconta infatti Elisabetta Ruspini, docente di Sociologia all’università Bicocca di Milano — è tradizionalmente protettiva, e restia a far uscire di casa i figli, fino a che questi non possano contare su qualcosa di certo e sicuro. Del resto, viste le circostanze, finché restano in casa il loro tenore di vita è di certo più alto». E se è vero, purtroppo, che questo modello di posticipazione dell’età adulta si sta diffondendo, aggiunge Ruspini «è anche vero che altrove, penso alla Germania, penso alla Francia, esistono reti di welfare che seppure minime permettono ai ragazzi maggiori spinte di autonomia». Ma tra sospensione e incertezza, in una sorta di letargo generazionale, i cui effetti sono evidenti ad esempio nella catastrofe della natalità, ad avere più spinte di indipendenza sono le donne. Se infatti il 40 per cento dei 30-34enni italiani vive ancora in famiglia, così dimostra l’Istat, la statistica femminile non supera invece il 20-25 per cento della stessa fascia d’età. Si diventa grandi dunque sempre più avanti. Tanto quanto da bambini si è corso per diventare, in fretta, ragazzini e poi adolescenti, magari perdendo qualcosa di fondamentale e prezioso. Un ritardo frutto di un intricato mix di responsabilità sociali e materiali, che si riverberano però nell’anima e nella mente. Dice Pietropolli Charmet: «Molti abusi di alcol e di sostanze nascono in questa dimensione di noia, incertezza e mancanza di futuro». E Elisabetta Ruspini avverte: «Fino ad ora, ma sempre più alle strette, la famiglia è stato l’ultimo ammortizzatore sociale. Sostegno e rifugio per questa generazione che non riesce a diventare autonoma. Ma non potrà durare a lungo. Perché i risparmi non ci sono più, perché la struttura stessa è cambiata, e soprattutto perché oltre ai giovani senza lavoro, c’è la pressione fortissima degli anziani. E tutto questo nell’assoluto letargo delle politiche di welfare». Una specie di bomba sociale composta da trentenni senza lavoro, genitori sessantenni in uscita dai cicli produttivi e anziani sempre più longevi, ma con pensioni all’osso e bisognosi di tutto. «I dati sulla emigrazione dei giovani sono evidenti», conclude Alessandro Rosina, «e ci dicono che chi può se ne va, cerca fortuna altrove, partono tutti, con titoli o senza titoli, pur di trovare un lavoro che garantisca un po’ di autonomia, che è il vero desiderio negato di questa generazione ».