Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 21 Martedì calendario

In Giappone si sono dimesse due ministre accusate di gestione impropria di fondi elettorali. Il premier Abe, che voleva portare avanti una battaglia contro il maschilismo in politica, si è scusato pubblicamente. Intanto crolla nei sondaggi e l’Abenomics non decolla

Dopo mesi di successi con la sua ricetta riformista battezzata «Abenomics», il premier giapponese Shinzo Abe ha incassato ieri due colpi molto duri. Nel giro di poche ore sono state costrette a dimettersi le ministre dell’Industria e della Giustizia. Le signore erano accusate di gestione impropria di fondi elettorali e la loro caduta ha costretto il capo del governo a scusarsi pubblicamente. L’umiliazione di Abe è resa più vistosa dal fatto che le due politiche erano state nominate solo il mese scorso, chiamate al governo con altre tre colleghe nel tentativo di togliere alla classe dirigente di Tokyo la tradizionale immagine di maschilismo e di coinvolgere le forze femminili nel grande rinascimento dell’economia.
Yuko Obuchi, quarantenne figlia di un ex premier, era considerata la nuova stella della squadra di Abe, anche una futura candidata alla guida del governo e aveva ricevuto il compito di convincere i giapponesi sulla sicurezza del programma nucleare, dopo il grande choc per Fukushima. Abe vuole riaccendere i 48 reattori nucleari fondamentali per l’approvvigionamento energetico del Paese e il volto sorridente di Yuko, il fatto che è una giovane mamma, sembravano perfetti per il compito. Ma la settimana scorsa un giornale di Tokyo ha tirato fuori ricevute di spese elettorali controverse di Yuko Obuchi: tra il 2008 e il 2012 fondi per almeno 10 milioni di yen (circa 75 mila euro) sarebbero finiti in regali e acquisti di materiale non propriamente politico, come cosmetici e accessori di moda venduti dalla boutique del cognato. Doni a sostenitori, vietati dalla legge.
Il caso della ministra della Giustizia è molto meno serio, quasi surreale secondo criteri europei: Midori Matsushima aveva fatto distribuire tra gli elettori ventagli di carta con la sua immagine. Qualche migliaio di ventaglietti da mezzo euro l’uno, molto popolari nelle estati calde del Giappone, per farsi pubblicità. Ma il partito d’opposizione l’ha denunciata appellandosi alla legge contro la compravendita di voti. Non sono episodi da sottovalutare questi in Giappone: nel 2007 il primo mandato di Abe al governo era naufragato proprio tra le onde di scandali che avevano coinvolto alcuni ministri.
Sono giorni difficili anche sul fronte internazionale per Abe: sta cercando di riaprire un dialogo con la Cina, dopo due anni di gelo dovuti al contenzioso territoriale sulle isole Senkaku/Diaoyu. E tre ministre, sabato, lo hanno messo in grave imbarazzo andando a rendere omaggio al santuario di Yasukuni dove sono onorati anche criminali di guerra odiati dai cinesi.
In patria la grande riforma economica sembra nel guado. Abe ha perso sette punti di gradimento in un mese, scendendo al 48%. E ora si trova di fronte a una scelta rischiosa: quella dell’aumento della tassa sui consumi dall’8 al 10 per cento a partire dal 2015. I due punti in più servirebbero a ridurre il debito pubblico enorme e a finanziare il sistema pensionistico, ma il Giappone sta faticosamente uscendo da quindici anni di deflazione e aumentare la tassa sugli acquisti rischia di deprimere nuovamente i consumatori. Ad aprile il primo ritocco dal 5 all’8 per cento ha avuto effetti negativi: nel trimestre seguente l’economia si è contratta del 7,1% rispetto allo stesso periodo del 2013. Così Abe ha detto al Financial Times : «Non avrebbe senso perdere l’opportunità di farla finita con la deflazione». Una frase che lascia immaginare uno stop all’aumento.