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 2014  ottobre 21 Martedì calendario

Carlo Cani, il minatore della sulcis che non ha mai lavorato e che ha sempre preso lo stipendio. In pensione a 52 anni, dopo 13 in cassa integrazione e prima «mi inventavo di tutto, amnesie, dolori, emorroidi, camminavo sbandando come fossi ubriaco. O forse, a pensarci bene, qualche volta lo ero davvero. Mi capitava di urtare la parete con un pollice, impossibile lavorare con un pollice gonfio»

Non sono stato leghista neppure quando era di moda esserlo, ma dopo aver letto l’intervista che pubblichiamo all’interno penso che lo diventerò. Mentre procedevo nella lettura del colloquio tra il giornalista della Nuova Sardegna Mauro Lissia e il minatore sardo in pensione Carlo Cani la mia indignazione e la mia rabbia si gonfiavano come mongolfiere. Altro che tasse sulle pensioni e sulla liquidazione di chi ha lavorato una vita, come vorrebbe fare Matteo Renzi con la scusa di rimettere in ordine il bilancio nazionale: qui c’è da fare i conti con un pezzo d’Italia che campa sulle spalle dell’altra, quella che lavora.
L’intervista a Carlo Cani, baby pensionato all’età di 52 anni dopo 13 trascorsi in cassa integrazione, è un programma politico, basterebbe infatti mandarla in onda ogni giorno in una trasmissione di prima serata per guadagnare voti e convincere gli italiani che se vogliono davvero cambiare verso a questo Paese bisogna partire da lì, da Carlo Cani, dalle sue furbizie ai danni di chi lavora.
Ma chi è Carlo Cani? Un simpatico sessantenne che da otto anni è a riposo e può godersi la passione di sempre, il jazz. Non che prima - quando ufficialmente lavorava - non lo abbia mai fatto. Anzi: Cani, soprannominato Charlie Dogs, si è sempre occupato di musica a tempo pieno, anche quando era minatore, poiché di fatto in miniera non c’è mai stato. Già, perché per sua stessa ammissione, non ha mai lavorato. «Io e il carbone non abbiamo mai legato», dice ridendo al cronista che lo ha scovato. «E allora andavo dai medici», continua fra una risatina e l’altra. «Chiedevo cure, loro capivano e mi accontentavano». Anni e anni di malattia, non sempre la stessa, ogni volta una nuova, ospite fisso degli ambulatori e del pronto soccorso: «Mi inventavo di tutto, amnesie, dolori, emorroidi, camminavo sbandando come fossi ubriaco. O forse, a pensarci bene, qualche volta lo ero davvero. Mi capitava di urtare la parete con un pollice, impossibile lavorare con un pollice gonfio». E, mentre racconta, a Carlo Cani scappa una risata. Assenteista, chiede il giornalista? «Più che altro assente per ragioni certificate». Lavativo? «Termine inappropriato, possiamo dire che alla miniera ho sempre preferito musica jazz e corse in salita».
Certo, come dargli torto, come non capire che lui, minatore per caso e musicista per vocazione, di scendere nei cunicoli a scavare carbone non aveva voglia. Lo stipendio lo percepiva sì, ma di lavorare là sotto non si parlava, perché là sotto non stava bene. Lui al martello pneumatico preferiva il sax e dunque tra un espediente e l’altro, tra un certificato e una visita medica, tra una furbizia e una degenza ha cercato di assecondare la sua inclinazione.
Ventisei anni così. Una volta, rientrato dalla malattia e comandato al controllo di un rubinetto, si addormentò 90 metri sotto terra e allagò la stazione di pompaggio. Per questo fu sbattuto a lavorare di ramazza nel piazzale della Carbosulcis: «Lavoretto leggero», ricorda, «ma solo per qualche giorno, perché non stavo bene». Mentre racconta la sua storia, l’ex minatore ride di gusto, si sente fiero di aver fregato tutti, di aver giocato a guardie e ladri con il lavoro. «Io ci scherzo su», spiega, «perché la mia è una strana storia. Laggiù, sotto terra, c’è gente che si è spaccata la schiena per anni e anni, gente che il salario se l’è guadagnato col sudore. Io li rispetto ma sono diverso (riprende a ridere, nota l’intervistatore), sono un minatore jazz».
Charlie Dogs. Ventisei anni di anni di espedienti, anzi di soluzioni, come le chiama lui, poi 13 di cassa integrazione, quindi lo scivolo per il lavoro usurante del minatore e infine la pensione: una vita senza mai lavorare. Che adesso, fra una risatina e l’altra, fra un brano di musica jazz e una corsetta, gli consente di dire che il lavoro è una parola importante, che lui guarda con rispetto.
Un caso limite, quello di Carlo Cani? Forse. O forse no, se è vero che in certe zone e in certi giorni abbiamo il più alto numero di assenze per malattie. E se è vero che in certe Regioni abbiamo più falsi invalidi e più pensioni di accompagnamento che altrove. E soprattutto se è vero che sui quasi 17 milioni di assegni previdenziali erogati ogni mese dall’Inps circa il 40 per cento è incassato da persone che non hanno versato i contributi necessari per avere la pensione. La verità è che Charlie Dogs è la rappresentazione beffarda ed eccessiva di un esercito di furbi che campa senza lavorare, approfittando degli ammortizzatori sociali e del generoso sistema di welfare pagato da chi fatica e versa le tasse. Carlo Cani è figlio dell’Italia assistita che per anni ha mantenuto aziende decotte in nome del posto di lavoro, un prodotto di un Paese malato e corrotto, dove ognuno pensa che in fondo non sarà lo stipendio guadagnato senza lavorare a mandare in malora l’Italia.
L’ex minatore per finta è parente stretto di quell’esercito di furbi messo in fila ieri dal Sole 24 Ore. Piccoli evasori, che dimenticano di pagare l’Imu o la Tari, ma alla cui porta non bussa nessun esattore. Anche loro, come il jazzista renitente al lavoro, giocano a guardie e ladri sfruttando le inefficienze della pubblica amministrazione: non pagano e sperano che nessuno gli chieda di farlo. Come Charlie Dogs, per i loro mancati versamenti si daranno una giustificazione che li assolve, pensando che di certo lo Stato non fallirà se loro non pagano qualche decina di euro di Ici. Giusto, no? In fondo che cosa volete che siano cinquanta euro al confronto di 35 anni senza lavorare.