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 2014  luglio 24 Giovedì calendario

«Solo la vita cura la vita». Secondo Giuseppe De Rita per uscire dalla crisi l’Italia ha bisogno soprattutto di slanci

Per uscire dal suo più grave lutto personale Benedetto Croce scrisse, con chiara semplicità, che «solo la vita cura la vita». Ed è una frase su cui può lavorare utilmente chi deve affrontare il luttuoso sperdimento che contraddistingue da qualche tempo la società italiana.
Anche a prescindere dalla umiliante retrocessione dell’Italia calcistica nei recenti campionati mondiali, la nostra reputazione complessiva tende pericolosamente al basso, spinta dalle valutazioni critiche delle agenzie di rating; dalle tante classifiche e comparazioni internazionali in cui occupiamo gli ultimi posti; dalla oggettiva distanza rispetto ai parametri di rigore dei più virtuosi partner europei; dalla calante attrattività per investitori e imprese internazionali; dall’affanno verso i giudizi negativi (ironici o crudeli, poco importa) che circolano su di noi nell’opinione pubblica europea e mondiale; e dai ricorrenti catastrofici annunci di regressione (di redditi, imprese, consumi, ecc.) da parte dei diversi centri di statistica e ricerca economica. Dovunque giriamo lo sguardo, il lutto si impone, di pari passo con un pericoloso deficit reputazionale.
Di fronte a ciò cosa può significare l’indicazione crociana che «la vita cura la vita»? L’emozione collettiva degli ultimi mesi ha visto contrapporsi al lutto una «botta di vita»: un vitalismo giovane, una volontà profonda di cambiare le cose, una determinazione a fare riforme profonde e strutturali. Ed ha alla fine premiato chi sul vitalismo aveva «messo la faccia». Ma contemporaneamente si sta sviluppando un’altra convinzione collettiva, attenta al fatto che accanto al vitalismo c’è una vita fatta di fenomeni e processi, quotidiani ed ordinari, e che «curarla» significa rendere funzionali tanti e diversi impegni ordinari (nei mercati finanziari, nella dinamica del lavoro, nell’evoluzione dei consumi, ecc.) non sempre coincidenti con l’ambizione volontaristica delle classi dirigenti.
Si arriva così silenziosamente a una contrapposizione fra la gestione dei processi che si svolgono nella quotidianità e una stagione di riforme a forte annuncio di radicalità; una contrapposizione che riecheggia il contrasto dei primi Anni 80 fra chi (Berlinguer) sosteneva le riforme come strumento per avviare il cambiamento e chi (Craxi) sosteneva che bisognava solo governare i diversi processi di un cambiamento già in atto.
In tale contrapposizione il ruolo mediaticamente più impressionante è oggi quello del governo, con le sue tante proposte di riforma. È un ruolo forte, profetico e per ora di successo; ma può anche essere un ruolo fragile, se le tante riforme non hanno diretta coerenza con le transizioni quotidianamente in corso: siamo ad esempio proprio sicuri che le riforme istituzionali, che vogliono rivoluzionare il potere domestico, abbiano relazione con le sfide tutte ordinarie imposte dagli organi comunitari? Siamo proprio sicuri che le annunciate riforme di settore (nel mondo del lavoro, della amministrazione pubblica, nell’assetto dei poteri territoriali) siano capaci di creare una minimale, ordinaria, «tedesca» efficienza di sistema?
Forse è sulla base di questi dubbi che il nostro premier ha cominciato a distinguere fra annunci riformisti (come strategia da 100 giorni) e scommessa sui tempi lunghi della ordinarietà (come strategia dei 1.000 giorni). Se l’ipotesi è esatta, vedremo nel prossimo futuro più una faticosa gestione di interventi sulle decisive transizioni (sugli equilibri di bilancio, sul sostegno alle imprese, sullo sviluppo dell’occupazione, ecc.) che generosi interventi a breve (riforme veloci e ambiziosi decreti legge) destinati poi a languire negli ingorghi parlamentari o nell’inerzia di strutture amministrative sempre più demotivate, forse delegittimate.