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 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

I curdi furibondi con i turchi che non sono intervenuti per difendere Kobane. Proteste con 21 morti a Istanbul e Diyarbakir

Kobane, per la coalizione anti-Isis, «non è una priorità». Le parole tombali sulle speranze dei curdi di veder arrivare rinforzi nella città assediata dagli islamisti, le ha pronunciate ieri sera il segretario di Stato americano John Kerry. Che per tutto il giorno aveva spinto Recep Tayyip Erdogan a intervenire. Troppo alte le richieste del presidente turco: una no fly zone rivolta contro il raiss siriano Bashar al Assad, un zona cuscinetto dove far confluire parte del milione e mezzo di profughi siriani ospitati in Turchia. Per gli Usa «l’obiettivo strategico è diverso»: prima di tutto colpire i centri di comando e fiaccare le capacità militari dei jihadisti «in tutta la Siria e l’Iraq». Raid, insomma, che però, ammette il Pentagono «da soli non bastano a salvare Kobani».
La divergenza fra Washington e Ankara rischia di condannare non solo Kobane. Ieri i raid alleati hanno allentato per qualche ora la morsa islamista, ma in serata l’Isis ha ricominciato ad avanzare verso il centro. La Turchia, in compenso, rischia la guerra fra bande. La Mezzaluna nelle ultime 48 ore è stata messa a ferro e fuoco da gruppi di manifestanti curdi, inferociti per la decisione di Ankara di non aiutare la cittadina curda subito la frontiera. Migliaia di persone si sono riversate nelle strade di 22 città, devastando tutto quello che trovavano sul loro cammino. Il bilancio è drammatico: 21 morti, centinaia di feriti. Il dato più inquietante, è che la maggior parte delle vittime non è morta in scontri con la polizia, ma con gruppi di ultra nazionalisti o islamici, contrari alle rivendicazioni del popolo curdo. 
Un clima pensante, che rischia di ricacciare la Turchia negli anni Settanta, quando gruppi di estrema sinistra ed estrema destra si ammazzavano per le strade. A Diyarbakir, nel sud-est del Paese e la città con la percentuale più alta di curdi, dopo 34 anni è entrato in vigore il coprifuoco. Stesso provvedimento per altre 5 località. Ma non è servito a nulla. Alle 18 di ieri migliaia di persone si sono riversate in piazza, con nuovi scontri con la polizia. Se il sud-est del Paese brucia, a Istanbul non sono più tranquilli: quartieri come Beyoglu, Bagcilar e Sultan Gazi sono blindati dalla polizia per evitare che si ripetano le scene di guerriglia urbana delle ultime due notti. Il rischio adesso è che il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, alimenti le violenze, che il premier, Ahmet Davutoglu ha definito «strumentali ad aumentare la tensione».
A Suruç e sul confine non si respira un clima migliore. La cittadina a 8 chilometri dalla frontiera da due sere è teatro di rivolte da parte del rifugiati curdo-siriani, stremati dalle condizioni in cui vivono, indignati con il governo di Ankara, e che accusano senza troppi giri di parole il presidente Recep Tayyip Erdogan e Davutoglu, di essere in combutta con Isis. In centinaia ieri hanno guardato Kobane da lontano. L’esercito turco ha sbarrato la strada verso il confine e quindi l’unica soluzione per avvicinarsi alla frontiera è utilizzare la campagna. «Staremo qui fino a tarda notte - spiega Mustafa - e poi proviamo a passare. Vogliamo andare a combattere. La Turchia ci ha traditi, Erdogan è un assassino sta lasciando che ci sterminino senza pietà». A Suruç la gente attende di sapere che ne sia stato dei loro cari che sono rimasti a combattere a Kobani. La giornata di ieri è stato un continuo alternarsi di colpi di mortaio e sparatorie. I raid alleati hanno creato un clima di grande euforia fra la folla, almeno per tutta la mattinata. 
Ma per i curdi siriani le buone notizie sembrano essere finite qui. In serata sono arrivate le parole di Kerry. Il segretario di Stato ha anche specificato che la creazione di una no fly zone, che piacerebbe tanto ad Ankara, sarà valutata con attenzione, ma non è ancora nelle opzioni. E poco più tardi la Casa Bianca ha ribadito che la zona cuscinetto «non è in agenda». Ma proprio su quest’ultima, il presidente turco Erdogan ha incassato l’appoggio dell’omologo francese François Hollande. Kobane per il momento resiste, ma potrebbe una gioia momentanea. La Turchia si prepara a vivere giorni difficili, che forse non aveva messo in conto.