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 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

Quante guerre ci sono nel mondo e come cominciano. E soprattutto: quand’è che un contrasto o un conflitto possono essere definiti “guerra”?

Il Conflict Barometer 2013, redatto ogni anno dall’Heidelberger Institut für International Konfliktforschung, diffuso il 25 febbraio scorso, identifica il 2013 come l’anno che ha fatto registrare più guerre dalla seconda guerra mondiale. Secondo l’Istituto, l’anno scorso di sono registrate 20 guerre, due in più rispetto al 2012, oltre a 414 conflitti armati, nove in più rispetto all’anno precedente.
Un settore che trae profitto da questa drammatica situazione è il mercato delle armi. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, nel 2012 sono stati investiti in spese militari 1.750 miliardi di dollari. Mi piacerebbe leggere un suo commento al riguardo, in particolare concernente la distinzione fra guerra e conflitto armato. Le guerre, per essere definite tali, devono essere ufficialmente dichiarate? 
Carmen Bellavista
armenbellavista@outlook.com

 
Cara Signora, 
Q uesto rapporto, frutto di una periodica ricerca del Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Heidelberg, definisce il conflitto politico in questi termini: uno scontro di posizioni su valori importanti per la società fra almeno due attori decisivi e direttamente coinvolti, con l’uso di mezzi e misure non contemplati dalle procedure regolamentari e con effetti che minacciano il funzionamento dello Stato e l’ordine internazionale. La definizione sembra riferirsi soprattutto alle guerre civili, ma in altre parti del rapporto «conflitto» e «guerra» sono usati indifferentemente come termini indistinguibili. Nel lungo elenco dei «conflitti particolarmente violenti del 2013» che sono stati presi in considerazione dai ricercatori del Barometro di Heidelberg, l’unica distinzione è fra «guerre» e «guerre limitate». Nel Medio Oriente, per esempio, sono considerate limitate quelle dell’Algeria e della Tunisia contro «Al Qaeda nel Maghreb islamico», dell’Egitto contro i gruppi islamisti nella penisola del Sinai, della Libia contro gruppi d’opposizione, della Turchia contro i curdi del Pkk; mentre sono semplicemente «guerre» quelle dell’Afghanistan contro i talebani, dell’Iraq contro le milizie sunnite dello Stato Islamico, della Siria contro i diversi nemici del regime, dello Yemen contro Al Qaeda nella penisola araba e i salafiti di Ansar Al Sharia (partigiani della legge islamica). 
Il fatto che questi conflitti siano stati preceduti o meno da una formale dichiarazione di guerra è irrilevante. Nel corso del XX secolo questa consuetudine degli Stati europei è stata ignorata per almeno due volte dal Giappone: nel febbraio del 1904, quando una squadra di cacciatorpediniere giapponesi attaccò improvvisamente la flotta russa nella base navale di Port Arthur, sulle coste della Manciuria, e nel dicembre 1941 quando aerei giapponesi bombardarono dall’aria Pearl Harbor, Hawai e la Malesia britannica. Oggi le guerre cominciano con bombardamenti, sconfinamenti di truppe da un territorio all’altro, colpi di Stato pilotati dall’esterno o, nella migliore delle ipotesi, un ultimatum. 
Quanto all’aumento dei conflitti da un anno all’altro, cara Signora, gli storici ci spiegheranno probabilmente che nel corso degli ultimi vent’anni vi sono stati il crollo di un grande impero ideologico (l’Unione Sovietica) e il collasso dell’ordine post-coloniale creato dopo la fine delle due grandi guerre mondiali del XX secolo. In questi vuoti di potere è andato progressivamente aumentando il numero di coloro che vogliono disegnare una nuova carta geografica della regione a cui appartengono. Con il sangue, naturalmente.