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 2014  ottobre 01 Mercoledì calendario

«Salviamo Reyhaneh». Al patibolo per essersi difesa

Un uomo violenta una giovane donna. Lei si difende con un coltello, lo ferisce a una spalla, fugge, lo stupratore muore in circostanze non chiare (un uomo è entrato nel frattempo nell’appartamento). Lei viene condannata all’impiccagione, a dispetto (o forse proprio in virtù) delle proteste internazionali.
La stessa Commissione per i Diritti umani dell’Onu chiede alle autorità iraniane la revisione del processo perché la ragazza, Reyhaneh Jabbari, aveva agito, «secondo fonti affidabili », per legittima difesa. Al processo due prove decisive – i preservativi e il sonnifero comprati poco prima dallo stupratore e ritrovati nel suo studio (il sonnifero in un bicchiere di succo di frutta) – non sono state prese in considerazione. Morteza Sarbandi era stato un funzionario importante del potente ministero dei Servizi segreti. Sette anni passati in carcere, dopo la condanna a morte, pronunciata nel 2009, un primo rinvio dell’esecuzione sei mesi fa. Rimandata a oggi. Ieri sera la madre di Reyhaneh era stata avvertita dalle autorità carcerarie di Evin di andare a riprendersi il corpo della figlia in giornata, ma le autorità giudiziare decidono all’ultimo momento di rinviare nuovamente l’esecuzione, fa sapere l’organizzazione iraniana per i Diritti Umani.
Reyhaneh Jabbari, condannata a morte perché si difese da uno stupro, avrà diritto a vivere ancora per dieci giorni. Shole Paravan, la madre, ha trascritto su Facebook il messaggio d’addio scritto dalla figlia: «Mi hanno già messo le manette e l’auto aspetta per portarmi al luogo dell’esecuzione. Tutte le mie sofferenze avranno fine tra poco. Mi dispiace di non poter alleviare il tuo dolore, ma noi crediamo nella vita dopo la morte e quando ti avrò ritrovata nell’altro mondo non ti lascerò mai più». Poi ha lanciato un appello a Italia e Vaticano, accolto dal monsignor Galantino, segretario della Cei: «Non resterà inascoltata». Era una ragazza di 19 anni, sette anni fa, quando si iscrive all’università e si guadagna da vivere come decoratrice di interni, un mestiere molto richiesto allora nella Teheran dei nuovi ricchi. Mentre discute di un progetto con una cliente al tavolo di un caffè un signore anziano al tavolo vicino ascolta: è Morteza Abdolali Sarbandi, medico ed (ex?) funzionario dei servizi segreti. Si presenta, dice che vuole rinnovare il proprio studio, ha bisogno di una consulenza. Fissano un appuntamento per un sopralluogo il pomeriggio del 7 luglio 2007. Per strada Sarbandi ferma la macchina davanti a una farmacia (dove compra preservativi e sonniferi). Non appena entrati nello studio medico l’assalta, cerca di violentarla. Lei si difende con un coltello tascabile con cui lo colpisce più che può alla schiena. Poi riesce a divincolarsi e corre via mentre entra nello studio un uomo (che secondo la famiglia di Reyhaneh è il vero omicida). Per strada allerta un’ambulanza, ma lo stupratore è già morto dissanguato quando i soccorritori arrivano. «Reyhaneh Jabbari è vittima due volte, prima dello stupratore e poi del sistema giudiziario», è scritto nel memorandum dell’Onu. Ora si tratta di salvarla. Le associazioni per i diritti umani si stanno mobilitando e in tanti hanno firmato una petizione online per la vita della vittima di uno stupro. Chi può salvare Reyhaneh è sicuramente la famiglia di Sarbandi, la moglie e i tre figli, che in base alla Sharia può accettare il qisas, o prezzo del sangue. Molti artisti iraniani, tra cui il regista Asghar Farhadi, hanno fatto appello perché Reyhaneh venga risparmiata. Ogni tanto questi appelli trovano ascolto, lo scorso aprile un giovane condannato all’impiccagione è stato salvato dalla madre dell’ucciso che gli ha dato una sberla e poi l’ha graziato quando aveva già il cappio al collo.