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 2014  ottobre 01 Mercoledì calendario

«Il nostro voto non è scontato». Ma la minoranza perde i pezzi

Se hanno votato no sul Jobs act, giurano gli oppositori di Renzi, «non è per cambiare il capo del governo, è per cambiare la politica economica del governo». La nuova frontiera è la legge di Stabilità, sono i conti pubblici e le coperture. L’articolo 18, sul quale la minoranza si è lacerata forse irreparabilmente, è solo un tassello del mosaico. Ma poiché la direzione ha ridisegnato i rapporti di forza a vantaggio della maggioranza, i più intransigenti a sinistra sperano che il reintegro si trasformi magicamente nel sassolino che inceppa l’ingranaggio.
«Un passo alla volta e stiamo al merito», è la strategia: quando arriverà l’emendamento del governo, scatteranno i subemendamenti. Ed è lì che gli anti-renziani si conteranno. I firmatari dei sette emendamenti al Jobs act, una trentina di senatori, si sono visti e hanno concordato la linea. «C’è preoccupazione sull’articolo 18 — spiega Cecilia Guerra — Si applica solo ai nuovi assunti o anche ai contratti in essere? La soluzione è pasticciata e poco chiara». Il vostro sì non è scontato? «Niente è scontato. Prima miglioriamo la delega, poi si vota». Renzi si è mosso abilmente, allontanando lo spauracchio del soccorso azzurro al Senato. Il rischio si è sensibilmente ridotto, tanto che ieri i renziani ridacchiavano sui «due, tre giapponesi» che potrebbero indossare l’elmetto e bocciare la riforma. Gli irriducibili hanno pochi margini di manovra e non si fanno troppe illusioni sulla possibilità di allargare il dissenso. Eppure vogliono giocarsi il finale di partita. «Renzi non può mettere la fiducia su una delega in bianco — avverte D’Attorre — E non può togliere a D’Alema il diritto di parola». L’ex premier trama per farlo cadere? «No. Chi pensa a un altro governo tecnico deve farsi curare. Il tentativo di questa nuova generazione di riformisti è mettere in campo un’alternativa a Renzi». Sarà. Ma la strada è lunga e il rischio di farsi asfaltare definitivamente è alto. «Si sono visti passi avanti, però la nostra battaglia non è finita — si fa coraggio la Bindi — Semmai è finita la luna di miele di Renzi con alcuni settori della classe dirigente e con una parte del Pd». Complotto in vista? «No, ma il premier deve essere aiutato a governare meglio. Sempre che lui voglia farsi aiutare...». Il segretario ha annunciato che andrà alla Leopolda e la minoranza, quella arrabbiata, non l’ha presa bene. «Andare a una riunione di corrente, da segretario e da premier, non è un segnale di pacificazione», attacca D’Attorre. Il problema è che la sinistra ha perso per strada un bel pezzo delle sue truppe. I «Turchi» sono ormai in maggioranza e nell’Area riformista di Roberto Speranza l’ala dialogante pesa ben più di quella intransigente. La componente, che si è divisa tra il no e l’astensione, in una serie di faccia a faccia e incontri anche tesi ha provato ieri a ricompattarsi, ma le posizioni restano distanti. «Siamo usciti dalla direzione con le ossa rotte», si sono sfogati i più dialoganti. E Speranza ha respinto l’accusa di aver spaccato i suoi: «Sono stato al merito e ho voluto cogliere le aperture del segretario».
Sul fronte del no, resta immobile Fassina: «Senza correzioni al Senato, non la voto. Non vedo aperture, sul reintegro Renzi ha fatto una operazione ambigua. I nostri emendamenti saranno votati». Quanti sono i «dem» pronti allo strappo? Se una settimana fa il pallottoliere di palazzo Madama ne conteggiava una dozzina, ora la fronda si è ristretta. «I miei resisteranno» giura Civati, e conferma l’ipotesi «concreta» di votare no alla Camera, come potrebbero fare i deputati di Cuperlo, il lettiano Boccia, la bindiana Miotto e Bersani. Ma è al Senato che si vince o si perde. Mucchetti, Mineo, Ricchiuti, Casson, Tocci, Chiti sono critici con Renzi da sempre. E la novità è che ieri, all’assemblea del gruppo, anche Anna Finocchiaro ha espresso dubbi sul merito della riforma.