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 2014  settembre 30 Martedì calendario

Hong kong dietro la protesta

Il meglio degli articoli di oggi sulla protesta di Hong Kong di Ilaria Maria Sala e Paolo Mastrolilli sulla Stampa, Guido Santevecchi sul Corriere, Rita Fatiguso sul Sole 24 Ore, Stefanini e Carlo Panella su Libero, Fabio Morabito e Cristina Marconi sul Messaggero.

«Decine di migliaia di manifestanti hanno bloccato le principali strade dell’ex colonia britannica e la notte di guerriglia combattuta dalla polizia con gas lacrimogeni, spray al pepe e manganelli non è bastata a disperdere la folla. Ieri duecento linee di autobus sono state bloccate o deviate, il traffico interrotto, la metropolitana chiusa, molte scuole hanno sospeso le lezioni, alcune banche e uffici non hanno aperto» [Sala, Sta].
 
«Oggetto della protesta: le elezioni del 2017, quando in teoria gli abitanti del Territorio potranno scegliere per la prima volta liberamente il Chief Executive del governo locale. Una possibilità che però Pechino intende limitare prima di tutto stabilendo che i candidati non potranno essere più di due o tre e poi nominando una commissione elettorale di 1400 membri col potere di vagliare le candidature, e nel caso cassarle» [Stefanini, Lib].
 
«Vogliamo solo la democrazia, staremo qui finché il governo non ci darà risposte».
 
«“The Umbrella Revolution”, la rivoluzione dell’ombrello. Gli ombrelli, ottimi per proteggersi dal sole cocente dell’estate di Hong Kong (o dalle frequenti piogge), dai lacrimogeni e dagli spray urticanti e simbolo stesso del movimento di disobbedienza democratica» [Sala, Sta].
 
«La Cina, alla quale il Regno Unito ha restituito Hong Kong nel 1997, ha annunciato che il futuro capo dell’esecutivo locale sarà eletto nel 2017 in una rosa di due o tre candidati, selezionati da un comitato di 1.400 persone [nominato da Pechino, ndr]. Una interpretazione restrittiva del suffragio universale che ha innescato una campagna di disobbedienza civile, 13mila studenti si sarebbero riuniti in un campus di Hong Kong, a luglio mezzo milione di persone erano scese in strada per protestare contro l’influenza di Pechino su Hong Kong» [Fatiguso, S24].

«Occupy Central with Love and Peace, sigla Oclp, abbreviato Occupy Central, è il nome del movimento che fu lanciato nel gennaio del 2013 da Benny Tai Yiu-ting, docente di Diritto all’Università di Hong Kong, per difendere la libera elezione. “Occupate Central con Pace e Amore”: da Central, la ex-Victoria City dei tempi della colonia, il centro degli affari dove sono anche concentrati i principali uffici del governo» [Stefanini, Lib].
 
«Le decine di migliaia di cittadini di Hong Kong che nella notte hanno invaso il centro chiedono anche il ritiro del Chief Executive CY Leung, il proconsole di Pechino. La reazione della Cina è per ora fatta di censura su tutte le notizie che arrivano dal "territorio ad amministrazione speciale" e accuse ai “cospiratori internazionali» [Santevecchi, Cds].

«I media sono costretti a soluzioni alternative. In televisione, per esempio, l’annunciatrice, con un completo arancione davanti alle immagini di una folla che cammina, domenica ha detto sorridendo che "la gente di Hong Kong è uscita per le strade per celebrare la giornata nazionale del 1° ottobre", con una scritta in sovrimpressione che diceva che «Hong Kong sostiene il programma di riforme elettorali annunciato dal governo» [Sala, Sta]. Il Wen Hui Pao, invece, il principale quotidiano pro-Pechino della città, sceglie la linea neutra e titola «Caos a Hong Kong» [Sala, Sta]. «Il Quotidiano del Popolo scrive che la sollevazione di Hong Kong è istigata da radicali che hanno ricevuto sostegno e istruzioni da “forze anticinesi” negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. “Una banda di individui infatuati dalla democrazia occidentale, i cui cuori appartengono ai colonialisti”. I giornali filocinesi di Hong Kong hanno scritto che Joshua Wong, il diciassettenne eroe del movimento studentesco, è stato coltivato dal consolato americano con l’offerta di una borsa di studio e di viaggi. Il Ta Kung Pao , quotidiano comunista dell’ex colonia britannica, titola “La mano nera”, prospettando trame straniere destabilizzanti. Il suo direttore si chiama Jia Xi Ping, un quarantenne dinamico che ci ha spiegato le ragioni di Pechino: Hong Kong è tornata alla Cina 16 anni fa, è parte della Repubblica popolare; ora qualcuno pensa che le elezioni a suffragio universale concesse per il 2017 debbano svolgersi come se Hong Kong fosse una nazione indipendente, ma non è così; bisogna seguire le leggi cinesi» (Santevecchi, Cds).

«Forse gli studenti arriveranno a liberarsi di Chun-ying, ma certo a Pechino non sono abituati ai compromessi» (Richard McGregor esperto del Partito comunista cinese, autore di The Party) [Sta. 29/9]

«L’Apple Daily, il quotidiano di Jimmy Lai, l’uomo d’affari che più di tutti ha sostenuto la battaglia pro-democrazia di Hong Kong, era tutto esaurito dalle sette di mattina, con in prima pagina i fumi dei lacrimogeni e un titolo a caratteri cubitali: “Ingiustificabile”» [Sala, Sta].

«"Qui ci sono tutti: tanto i camionisti che i gestori dei ristoranti dove vanno a mangiare, i meccanici, la classe media. Insomma, tutti: la violenza della polizia ha fatto infuriare chi non avrebbe mai partecipato a una manifestazione"» (Cheung Kit, manifestante) [Sala, Sta]. Ci Dopo gli scontri sono tornati in piazza anche gli anziani (“L’altra notte era giusto ritirarci, si era fatto troppo pericoloso, ma oggi è giusto essere tornati in tanti”) e bambini portati in giro per una lezione di educazione civica («Mia Figlia [Cheng Lili, 13 anni, ndr] deve imparare ad essere una brava cittadina, consapevole dei suoi diritti”» (Santevecchi, Cds.). Ieri perfino i cardinali cattolici sono scesi in piazza e ora Pechino si trova ad affrontare una delle sfide politiche più impegnative da piazza Tiananmen, 25 anni fa [Sala, Sta].

 «L’esecutivo ha annunciato il ritiro degli agenti in assetto anti-sommossa dalle strade, ma è stato costretto a cancellare le celebrazioni per la festa nazionale» [Sala, Sta]. Fino a notte non si sono visti i loro elmetti integrali in giro. Solo poliziotti in camicia e berretto  [Santevecchi, Cds]. «È il tentativo estremo di Pechino di allentare la tensione nell’ex colonia inglese, in rivolta contro la riforma elettorale-truffa approvata dal partito comunista, deciso a pilotare le elezioni del 2017» [Visetti, Rep]. 

«Domani è il giorno più temuto perché il primo ottobre Pechino festeggia la vittoria della rivoluzione e la fondazione della Repubblica popolare (è il 65° anniversario), e la protesta potrebbe impedire a Hong Kong la prevista parata militare. Ieri il governatore Cy Leung ha fatto il suo secondo appello ai manifestanti, dopo quello fallito di domenica con il quale aveva chiesto di sgomberare le strade occupate del centro città per non intralciare lunedì il ritorno al lavoro. Niente da fare, il movimento “Occupy Central” si pone proprio l’obbiettivo di bloccare le attività del centro finanziario della ricchissima isola» [Morabito, Mes].
 
Della divisa dei poliziotti di Hong Kong sono cambiati solo i bottoni: dal 1997, invece dello stemma della corona britannica c’è il fiore di bahunia. [Mes].

 «Finora Xi ha consentito alle forze locali di gestire la crisi. È possibile che ci riescano, e magari la comunità degli affari convincerà i manifestanti a fermarsi. Se la situazione però non si calmerà da sola, Pechino interverrà, e allora esiste il concreto rischio di uno spargimento di sangue. Ma sul piano politico non è una nuova Tienammen, perché i manifestanti di Hong Kong non hanno l’appoggio del resto della popolazione cinese, che li considera bambini viziati e si sente maltrattata da loro. Proprio per questo, però, il governo centrale non può consentire all’ex colonia britannica di dettare le regole, minacciando così la stabilità in tutto il Paese. Se dunque i manifestanti non si fermeranno, Pechino non esiterà ad usare la violenza, anche perché il resto del mondo non può fare granché per fermarla» (Ian Bremmer, presidente dell’Eurasia Group , una compagnia che fa analisi dei political risk a livello globale a Paolo Mastolilli, Sta).
  
«Le reazioni del Governo cinese sono state dure. Per Pechino le manifestazioni di piazza a Hong Kong sono frutto di “estremisti politici” che però sono “destinati al fallimento” perché “sanno bene che è impossibile modificare la decisione” sulle modalità delle elezioni del 2017 per il governatore. Dure anche le reazioni nei confronti di eventuali ingerenze straniere. La Cina intima agli Stati Uniti e alle altre nazioni straniere, inclusa l’ex potenza coloniale britannica, di non interferire negli affari interni di Hong Kong, perché si tratta di una questione cinese. “Hong Kong è cinese: È una regione cinese ad amministrazione speciale e gli affari di Hong Kong sono esclusivamente affari interni cinesi” ha dichiarato un portavoce del ministero degli Esteri» (Fatiguso, S24).
 
«Io credo che il presidente Obama, come tutti i leader occidentali, alzerà la voce e condannerà l’eventuale uso della forza, ma senza spingersi alle iniziative prese contro la Russia, che peraltro non hanno avuto grandi effetti fino a questo momento» (Ian Bremmer, Sta).
 
«La realtà è che Hong Kong, da 17 anni, è cinese a tutti gli effetti e sa bene che il suo guinzaglio lungo, patteggiato tra Deng Xiaoping e Margareth Thatcher, sarà comunque tagliato nel 2047. Così oggi nessuno può muovere un passo, né in avanti, né all’indietro: Pechino non rinuncerà ad applicare l’autoritarismo rosso in una sua regione, Hong Kong non rinuncerà ai diritti che l’hanno resa ricca. È il nuovo Muro dell’Asia, che attraverso Admiralty divide l’universo cinese da quello Usa: l’incertezza nasce dal non sapere chi cederà prima, l’incubo è che nessuno lo faccia (Visetti, Rep).
 
«Due buone notizie da Hong Kong: la prima, ovvia, è che la sete di democrazia germoglia ovunque [] La seconda, quasi più importante, è che il modello cinese non regge, quantomeno, scricchiola. Il più grande Paese del mondo è infatti diviso in realtà in due immense nazioni. In una, la più grande, si produce poco – ma comunque si produce – secondo le fallimentari regole dell’economia socialista. Nella “seconda Cina”, una nazione di più di 200 milioni di abitanti, invece, si produce, si guadagna, si concentra e si specula secondo le più sfrenate regole del capitalismo. Hong Kong è la punta di diamante, la capitale morale della Cina e dei cinesi capitalisti, per la semplice ragione che sino al 1997 è stata sottratta all’incubo comunista, era inglese e fu restituita a Pechino con un grado di sviluppo capitalistico eccezionale. Il vero e incomprensibile “miracolo cinese” impostato da quel genio di Deng Tsiao Ping, è che su tutte e due queste «nazioni» cinesi, così diverse, regna e comanda il Partito Comunista Cinese. Insomma, in Cina c’è la piena libertà di mercato e di impresa, ma non c’è la minima libertà politica» [Panella, Lib].

«Quando ci fu il passaggio dalla Gran Bretagna, Hong Kong valeva il 15% dell’economia cinese, ora solo il 2,5%. Non sono numeri abbastanza significativi da spingere Pechino al compromesso. Il presidente Xi è un riformatore, ma sul piano economico: vuole che il Paese si evolva, crescendo sulla base di un modello più simile a quello delle economie liberali. Sul piano politico, però, è un accentratore, proprio perché per riuscire nel suo progetto non può permettersi defezioni. Dunque il danno politico di una Hong Kong libera di andare per la sua strada democratica è enormemente più grande dei vantaggi economici che può offrire. Ormai, se uno vuole investire in Cina, può andare a Shanghai, Guangzhou o Pechino. Non c’è più bisogno di passare da Hong Kong» (Ian Bremmer, presidente dell’Eurasia Group , una compagnia che fa analisi dei political risk a livello globale a Paolo Mastolilli, Sta).

«La Cina ha bisogno di crescere finanziariamente e Hong Kong è una pedina in questa strategia che non può essere lasciata al suo destino. Ma tanta conflittualità lascia il segno, ieri Hong Kong ha chiuso in negativo, negativi i futures, le quotazioni dell’oro, anche Wall Street è andata in fibrillazione. Ricevendo la scorsa settimana una sessantina di tycoons di Hong Kong il presidente Xi Jinping l’ha detto chiaro e tondo, noi chiediamo a Hong Kong stabilità, il nostro Governo vi promette in cambio sostegno contro tutti quelli che a questa stabilità attentano. I capitali non si toccano. Con le manifestazioni di piazza i buoni affari scappano» (Fatiguso, S24).

«Sotto i britannici la situazione della democrazia non era migliore, visto che il governatore era scelto da Londra. Il malcontento è innanzitutto economico perché c’è una parte della popolazione che è rimasta tagliata fuori dal progresso, i prezzi degli immobili sono alle stelle e gli studenti si sono fatti espressione di questa frustrazione. L’argomento più legittimo di chi protesta è che nessuno sta facendo gli interessi di Hong Kong e che il sistema di elezione dell’amministratore delegato non permette di selezionare qualcuno che se ne occupi realmente. Finora Pechino si è occupata delle grandi corporations a discapito della povera gente e questo ha alimentato un desiderio di democrazia che prima non c’era. Comunque buona parte della popolazione non condivide la protesta, i cinesi, come giapponesi e coreani, hanno più a cuore il potere economico di quello politico» (Michele Bina, imprenditore italiano presente da 20 anni nella regione a Marconi sul Mes).
 
«È come l’Ucraina, con la differenza che Hong Kong fa parte del territorio cinese. Da questa situazione non può venire fuori nulla di buono, perché Pechino non è disposta a compromessi. L’unico dubbio è se le forze dell’ordine locali basteranno a fermare la protesta, oppure se il governo centrale manderà l’esercito» (Ian Bremmer a Mastrolilli, Sta).