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 2014  settembre 18 Giovedì calendario

La Capria ricorda Totò e l’amico suo Eduardo De Filippo

Ho capito la grandezza di Totò un giorno in cui camminavo per le vie della vecchia Napoli. In quel groviglio degradato di palazzetti fatiscenti e di vicoli senza speranza, a un certo punto mi indicano una di quelle case più desolate delle altre e una targa che dice che lì è nato Totò. Come avrà fatto chi è nato lì in quella casa e in quell’ambiente, che più misero non potrebbe essere, a diventare Totò, principe per discendenza caparbiamente rivendicata e principe del teatro? Qui, in questi vicoli e tra queste mura, ho immaginato infanzia e adolescenza del futuro Totò di cui nulla so e poco è stato raccontato. Ho immaginato le sue esperienze, le sue difficoltà, i suoi incontri e la scoperta della sua vocazione, ma come nasce e si forma un genio è stato sempre misterioso. Certo che lì in quella Napoli antichissima è nato un attore modernissimo, un attore diverso da tutti gli altri che lo avevano preceduto nella tradizione teatrale napoletana, pur così ricca di volti e di caratteri. Non c’è mai stato uno come lui, attore sì, ma anche vivente marionetta, maestro dell’ammicco e della contorsione esilarante, della gestualità disarticolata, istrione e macchiettista, saltimbanco, mimo delle atellane e figura futurista, maestro del linguaggio del corpo e della parola, insomma unico. C’è chi lo ha paragonato a Charlot, ma solo per la sua grandezza e la sua popolarità.
Eduardo De Filippo, che lo incontrò e conobbe quando Totò era appena agli inizi, scrisse di lui giovanissimo un ritratto che ne fa risaltare l’umiltà e la fatica dell’apprendistato. Allora, al tempo della giovinezza di Eduardo, il lavoro dell’attore era più faticoso e più dure le condizioni di vita. A parte le tournée sfibranti, fatte con poca paga e brutti alberghi, a volte addirittura saltando i pasti, il ritmo era questo: prova dalle dieci a mezzogiorno. All’una si iniziavano le recite, tre spettacoli al giorno, quattro nei festivi. Si usciva dal teatro a notte inoltrata. Fu questa la vita di Eduardo quando era scritturato dai teatri più popolari, il San Ferdinando, il Trianon, l’Orfeo. Qui la mattina alle dieci, in un bugigattolo di camerino dalle pareti gonfie di umidità, Eduardo andava spesso a far quattro chiacchiere con un amico appena più grande, un attore che a 16 anni già entusiasmava il suo pubblico, Totò. Nel camerino di Totò, sulla sua tavoletta del trucco, avvolta in un pacchetto, la colazione di Totò, pane e frittata.
Non sapevo che Eduardo e Totò si conoscessero sin da ragazzi, e non sapevo che in occasione della morte di Totò, avvenuta nel 1967, Eduardo, rievocando quell’amicizia, aveva scritto che lui vedeva Totò «non come una curiosità di teatro ma come una luce che miracolosamente assume fattezze di una creatura irreale, che ha la facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo,e assomigliare a tutti noi, e che va e viene, viene e va, e poi torna sulla luna da dove è disceso».
Ed ecco ancora un altro ricordo di Eduardo, che è andato a trovare Totò alla fine dello spettacolo e lo aspetta nel suo camerino. Ormai Totò è diventato un attore importante, amato dal pubblico, ed ha un successo incontrastato: «Ora sono travolgenti gli applausi e le grida di entusiasmo di quel pubblico. Il numero di Totò è finito. Un rumore di passi lenti e stanchi si avvicina, la porticina del bugigattolo viene spinta dall’esterno. Totò deve aprire e chiudere più volte le palpebre, e sbatterle per liberarle dalle gocce di sudore che gli scorrono giù dalla fronte per potermi vedere e riconoscere e finalmente dirmi: Eduà, stai ‘ccà ».
Quelle palpebre che sbattono per liberarsi dal sudore rimangono impresse nella memoria. Si poteva in modo più eloquente e insieme poetico far capire di cosa è fatta la fatica dell’attore?
Sono passati ormai molti anni dalla morte di Totò, ed è sempre viva la sua figura nel nostro ricordo, si staglia sul palcoscenico o ci viene incontro dai numerosi film di cui fu protagonista, molti dei quali si reggono solo per la sua irresistibile presenza. Chi potrà mai dimenticare le sue trionfali marcette dei bersaglieri sulla passerella tra lo scrosciare degli applausi? O nei film la sua lezione su come si apre una cassaforte (I soliti ignoti ) i suoi battibecchi con il grande Peppino De Filippo, l’unico che gli poteva stare accanto, i suoi dialoghi surreali con l’onorevole Trombetta portati avanti fino a un delirante parossismo? E chi potrà mai dimenticare le sue battute, i suoi «chicche e sia», i suoi equivoci verbali e le sue esitazioni sulla lingua italiana (come quando lui chiede informazioni a un vigile urbano) che lui sembra scoprire ogni volta come una lingua straniera, i suoi paradossali e sorprendenti rovesciamenti delle frasi fatte.
Lui è sempre l’unico, colui che esce da tutti gli schemi, non c’è nessuno che gli si possa paragonare, neppure Pulcinella, alla cui famiglia pur appartiene. Più che un attore lui è una maschera, un archetipo, un’astrazione, che per una fatale congiunzione degli astri ha trasmesso subito, con l’immediatezza tutta inventata di una sconnessa gestualità, a volte meccanica come quella di un automa, e solo sua, il senso di una comicità universale che nessuno a Napoli ha mai raggiunto.
La sua fine iniziò in modo tragico sulle tavole di un palcoscenico con Totò nelle vesti di Napoleone, come racconta Franca Faldini, compagna della seconda parte della sua vita. Franca era anche lei sul palcoscenico a pochi passi da lui, quando lo sentì sussurrare: «Non ci vedo più: è buio». Lo aveva detto con voce pacata, «poi si scaricò in una mimica frenetica che fece delirare il pubblico, e tra le ovazioni di un teatro impazzito che urlava: Totò, si’ ‘na muntagna ‘e zuccaro! si avviò a intuito verso le quinte».