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 2014  settembre 18 Giovedì calendario

Napolitano striglia le Camere e torna l’incognita dimissioni

E ora basta con queste «pretese settarie». Non se ne può più di certe «immotivate preclusioni». Non sono più ammissibili i «veti incrociati». Non si può pretendere di «considerare idonei solo i candidati della propria parte». Se le fumate nere continuano, se lo stallo sulle nomine di Consulta e Csm prosegue, «ci saranno conseguenze». Gravi. Quali? Giorgio Napolitano non parla di scioglimenti o di voti anticipati, se ne guarda bene, non è nel suo carattere e nemmeno nei suoi desideri. Però ci va molto vicino. Se il meccanismo di garanzia si paralizza», spiega, non sarà soltanto il sistema dei quorum ad essere «messo in discussione». Avvisati, non salvati.
Duro, durissimo. Più che un monito, quello del capo dello Stato è uno schiaffone, una mezza lettera di licenziamento a un organo costituzionale che non riesce più a svolgere le proprie funzioni. Certo, il presidente è storicamente contrario alle elezioni anticipate, tanto più in questa fase, a metà del semestre italiano alla guida dell’Ue, nel mezzo della bufera economica e con la troika sul pianerottolo. Deputati e senatori devono comunque fare attenzione, non possono speculare sulla naturale ritrosia del Colle a mandare tutti a casa, e neanche sul prossimo (a gennaio, in primavera?) abbandono di Napolitano. Perché – e questo è il senso vero del messaggio, il non detto – quello che conta sono i risultati. Se il Parlamento non riesce a nominare i consiglieri della Corte Costituzionale, come può sperare di fare le riforme?
E così, dopo aver cercato di metterlo sotto tutela, dopo il consiglio di dare retta a Mario Draghi per evitare guai, dopo la recente irritazione per i toni con l’Europa, giudicati troppo muscolari e controproducenti, adesso il capo dello Stato offre indirettamente una sponda al premier. Del resto gli interessi coincidono. Martedì, illustrando il programma dei mille giorni, Matteo Renzi ha calato l’asso, facendo annusare a tutti l’aria del voto: o il Jobs act, o si torna alle urne. E ora ci prova il presidente a sbloccare la situazione, per la Consulta e pure per le riforme.
Lo fa scrivendo una nota particolarmente ruvida, 26 righe di furia quirinalizia sull’immobilismo del Parlamento. Lo stallo «solleva gravi interrogativi» ma forse, si legge, «i partecipanti alle votazioni non hanno ben chiari» i termini della questione. I quorum necessari sono stati alzati come forma di garanzia dopo l’introduzione del maggioritario. Però, quando si tratta di decidere su incarichi di rilevanza costituzionale, «implicano tassativamente convergenze sulle candidature». Altrimenti «il meccanismo di paralizza e l’istituto si logora».
Da qui alle elezioni anticipate il passo è lungo, anche perché firmare il decreto di scioglimento significherebbe certificare il fallimento politico del Belpaese. C’è poi l’uscita di scena di Napolitano a complicare tutto. Si dimetterà a gennaio? In questo caso sarà l’attuale Parlamento, in parte azzoppato dalla riforma in corso di Palazzo Madama, a scegliere il successore, che avrà difficoltà a mandare tutti a casa senza auto-delegittimarsi. Re Giorgio si dimetterà a giugno, quando compirà 90 anni? In quest’altro caso l’arma dello scioglimento, sia pur sgradita, sarebbe carica: ma avrebbe senso far votare gli italiani per un Senato che sta per essere cambiato e per il quale bisognerebbe tornare alle urne? E inoltre, dopo un’altra campagna, il vincitore quali altri strade avrebbe se non applicare il programma dettato da Bruxelles e Francoforte?