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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

Appunti su Giacomo Leopardi

Vita Nasce a Recanati nel 1798 Giacomo Leopardi trascorre l’intera giovinezza sui libri accumulati dal padre. Sette anni di studio ”matto e disperatissimo”, che logorano il suo fisico. Vorrebbe confrontarsi con i ragazzi della sua età, poter giocare, correre, ridere e saltare. Ma a fargli compagnia ci sono solo i libri. Seduto per ore davanti a tomi e trattati, Leopardi danneggia il suo fisico. La sua fragile spina dorsale ne soffre: la sua schiena si incurva per una grave scoliosi. E gli occhi si indeboliscono. timido e insicuro, meditativo e malinconico. Tra gli undici e i dodici anni già parla il francese ed il latino, scrive le tragedie Il Pompeo in Egitto e La virtù indiana, affronta la lingua ebraica e il greco antico. Ma soffre la distanza, la differenza anche fisica dai suoi coetanei. A quindici anni scrive l’erudita Storia dell’astronomia. A diciotto anni è in crisi: la sua salute, già rovinata, non gli consente più di studiare come vorrebbe. Aderisce al Naturalismo, si allontana dalla religione cattolica. Nel 1822 si trasferisce a Roma, presso uno zio paterno. Nel 1825 visita Milano, Bologna e Firenze. a Napoli nel 1833: il suo stato di salute ha assunto toni preoccupanti. La scoliosi ormai minaccia la sua vita, rendendo difficile il lavoro del cuore e dei polmoni. E gli occhi, già deboli, quasi non gli consentono di leggere. Le sue disastrose condizioni di salute non gli consentono più di lavorare: vincendo la sua ritrosia a dipendere dalla famiglia, si umilierà a chiedere al padre un «piccolo assegnamento» mensile di dodici ducati. Lo ottiene. Muore nel 1837, non ancora quarantenne [Macchina del Tempo, Settembre 2001]
 
Giocattoli Tra i giocattoli di Giacomo Leopardi: soldatini, il teatro dei burattini, l’altarino di legno dotato di tutti gli arredi per far finta di “dire messa”, i tarocchi disegnati a china, la tombola settecentesca e un e un libretto di preghiere che con grafia e ortografia incerta Giacomo Leopardi bambino (a tre anni) dedicava alla nonna paterna per le sue devozioni domestiche » [Maria Novella De Luca, Rep 28/6/2007].
 
Bambini «I bambini trovano il tutto nel nulla, gli uomini non trovano nulla nel tutto» (Giacomo Leopardi).
 
Nonna La poesia scritta dal giovane Giacomo Leopardi per la nonna Virginia Mosca Leopardi (datata 25 giugno 1810, il futuro poeta non aveva compiuto ancora 12 anni): «Alla signora contessa Virginia Leopardi / di fiori un serto vivido, che Apollo a noi presenti / In Elicona è solito destar vaghi concenti. / E quei Poeti miseri che non san fare un corno / fiori a raccor divertonsi per tutto il santo giorno. /A questo io stesso m’occupo, che sono un di costoro, / e stanco poi distendomi sotto un opaco alloro. / Or dunque il frutto nobile della fatica mia / umil presento, e inchinomi a Vostra Signoria. / Spero che in volto placido accetterete il dono / e dell’ardir che presimi darete a me perdono. / Prendetelo di grazia, e quindi se ma fia, / che in un vasetto pongasi, o in quello che si sia, / quell’acqua sì odorifera, quell’acqua istessa, / al Precettor buonissima per celebrar la Messa. / Se dopo tante prediche che far non ne sapete / nel cacator buttatelo, o dove mai volete. / Basta che di riceverlo non isdegniate almeno, / del resto cosa importami? sarò contento appieno» [Sta 30/5/2006]
 
Tonaca I genitori di Giacomo Leopardi, volendo che il figlio si facesse prete, immaginavano che la tonaca, «quella ferraiolina di seta che si agita a ogni soffio d’aria», sarebbe servita anche a «nascondere un poco la sua gibbosità» [Ami 13/3/2002]
 
Timidi «I timidi non hanno meno amor proprio degli arroganti; anzi più, o vogliamo dire più sensitivo; e perciò temono. E si guardano di non pungere gli altri, non per istima che ne facciano maggiore che gli insolenti e gli arditi, ma per evitare d’esser punti essi, atteso l’estremo dolore che ricevono da ogni puntura» (Giacomo Leopardi).
 
Iliade Nel 1809, Giacomo Leopardi undicenne lesse per la prima volta l’Iliade. Quel passo lo colpì straordinariamente e influenzò per sempre il suo mondo e la sua poesia. Amava lo spazio immenso, la centralità della luce, l’assenza di vento, le precisione dello sguardo, che fissa le cime, i colli e le valli, e la presenza del pastore, chissà dove, «che gioisce in cuor suo». La figura del pastore è la stessa di Piero Boitani critico che racconta il tappeto del cielo e scorge dovunque calma, quiete, entusiasmo, esaltazione, vastità, precisione: o, come dice san Tommaso, integritas, consonantia e claritas. [Pietro Citati, Cds 5/10/2012]
 
Vecchiezza «Uno de’ maggiori frutti che mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito» (Giacomo Leopardi).
 
Letteratura Giacomo Leopardi, in una lettera scritta da Roma al fratello: «S’io non avessi il rifugio della posterità e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte» [Cds 7/6/2003].
 
Lettere Lo storico della lingua, Giuseppe Antonelli, dice che anche Leopardi diceva le parolacce. Si capisce da alcune lettere. In una da Roma al fratello Carlo: «Qui è come a Recanati, non la danno». Il fratello Carlo, per significarli il dispiacere per la sua lontananza, gli manda a dire: «non posso in tutto il giorno sfogarmi con un linguaggio un poco libero... buttare giù i cazzi, i porco D. eccetera». Comunque, dice ancora Antonelli, quasi tutti i classici dicevano parolacce, tranne Manzoni: «Ne era molto infastidito, e neppure da quelle che sentiva colloquialmente, ma dai lemmi del Vocabolario della Crusca» (ragionamenti a margine del film Il giovane favoloso, su Giacomo Leopardi, presentato al festival del cinema di Venezia. Regia: Mario Martone. Interprete principale: Elio Germano) [Baudino, Sta, 2/9/2014].
 
Genitori Leopardi, che faticava a tirare avanti, così scriveva al padre, conte Monaldo, nel luglio del 1819: «Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili a famosi mi hanno conosciuto ed hanno portato in me quel giudizio ch’ella sa, e ch’io non debbo ripetere”. Non sa come mantenersi, quel giovane storpio, da poco afflitto anche da gravi problemi di vista, che ha già pubblicato i due terzi della propria opera, suscitando interesse in tutta Europa fuorché, si intende, nel conte padre: “Contuttoché si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia».
Avara suo malgrado, costretta per risanare il bilancio di famiglia, fu la mamma di Giacomo Leopardi, quell’Adelaide Antici che accettava dai contadini solo uova grosse, tanto che aveva un cerchio per misurale e respingeva le sottodimensionate [Armando Torno, Cds 24/01/2011].
 
Scacchi Leopardi, solito giocare a scacchi con il padre Monaldo «interminabili partite», da bambino sognava di diventarne campione («in essi la mia brama della gloria»), più tardi se ne servì per questioni d’amore. Scrivesse così, sul Diario del primo amore: «La sera del venerdi i miei fratelli giocavano alle carte con lei; io, invidiandoli molto, fui costretto a giocare a scacchi con un altro; mi ci misi per vincere, al fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza conoscerlo facea stima di quel gioco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora, intenta ad altro, non ci badò; poi lasciate le carte, volle che io le insegnassi i movimenti degli scacchi; lo feci, ma insieme cogli altri e però con poco diletto, ma m’accorsi ch’ella con molta facilità imparava e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia e ne argomentai quello che poi ho inteso da altri, che fosse Signora d’ingegno. ... L’indomani, venuta l’ora, giuocai con lei a scacchi. La Signora m’avea trattato benignamente ed io per la prima volta avea fatto ridere con le mie burlette una dama di bello aspetto e parlatole e ottenuto per me molte parole e sorrisi». Per la cronaca la serata era quella del 12 dicembre 1817, quindi Leopardi aveva 19 anni; la Signora era una sua cugina di secondo grado, Geltrude Cassi, di 26 anni, sposata con un cinquantenne «grosso e pacifico».
 
Vittorina Ritrovata in un archivio privato di Pavia una lettera di Giacomo Leopardi, scritta il 30 aprile 1827 al fratello Carlo. Leopardi scrive da Bologna e, in vena di confidenze, si lascia andare a commenti su Vittoria e Augusta, figlie della cugina pesarese Gertrude Cassi, che nel dicembre 1817 lo turbò a tal punto da ispirargli "Diario del primo amore". A proposito di «Vittorina» il poeta nota «che si è fatta bella, ma io non so dove stia questa bellezza», poi definisce Augusta «tanto languida, tanto pallida, tanto sottile, che par piuttosto uno spirito che un corpo, è proprio l’opposto della madre, e io credo che un soffio basterà a farla svanire affatto» [Rep 13/3/2002].
 
Romane Giacomo Leopardi al fratello Carlo: «Le donne romane non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi (...) Quanto al sostanziale (...) si fa molto più a Recanati che a Roma (...) «Veramente non so qual migliore occupazione si possa trovare al mondo, che quella di fare all’amore, sia di primavera o d’autunno; e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come io fo, attorno all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina» [S24 27/9/1998].
 
Manzoni Manzoni confessò al De Sanctis «di non saper intendere come potesse passare per poeta». Il Colletta: «Ho riletto parecchi de’ componenti antichi, alcuni de’ novi: e ti dico all’orecchio, che niente mi è piaciuto. La medesima eterna, ormai non sopportabile, malinconia: gli stessi argomenti: nessuna idea, nessun concetto nuovo, tristezza affettata e qualche seicentismo: bello stile». Il Tommaseo accenna un «non so che di appassito nel vegeto, di mortificato nel vivente, di squallido nella più squisita eleganza» (Chiara Somaini legge Guida alla lettura di Leopardi, di Vincenzo Guarracino) [S24 4/10/98].
 
Poco «Hai tu veduto il suo romanzo, che fa tanto rumore e val tanto poco?» (Giacomo Leopardi a proposito di Alessandro Manzoni e dei Promessi Sposi, in una lettera a Brighenti nell’agosto 1827).
 
Ridere «Chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri» (Giacomo Leopardi).
 
Gelati Giacomo Leopardi mangiava gelati con bramosia, quasi con furore, e secondo il suo amico Antonio Ranieri «più i medici minacciavano sputi sanguigni, bronchiti e vomiche, e più il furore cresceva» [Ami 6/2/2002].
 
Cibo Giacomo Leopardi a proposito del cibarsi: «Occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buon stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo» [Sta 9/11/2002].
 
Piatti Tra i piatti preferiti da Giacomo Leopardi: zucche e insalate con ripieno di carne, erbe strascinate, cervelli fritti al burro in cibreo (con uova, brodo e limone), frittelle di semolino, pasticcini di maccheroni o maccheroncini, tortini di grasso e di magro [Adn 29/1/2003].
 
Buongustai Nel suo soggiorno tra Napoli e Torre del Greco, Giacomo Leopardi, amante della buona cucina, elencò su un foglio i 49 piatti preferiti, tra cui: zucche con ripieno di carne, frittelle di semolino, maccheroncini, cervello fritto al burro in cibreo, erbe strascinate.
 
Infinità «Infinità» al posto di «immensità»: non è un errore di stampa, ma il testo di un’edizione leopardiana stampata nel 1826 in un volume rarissimo, acquisito dalla biblioteca dell’Università Cattolica di Milano. «Così tra questa / infinità s’annega il pensier mio: / e ’l naufragar m’è dolce in questo mare»: è la conclusione della più celebre poesia di Giacomo Leopardi, L’infinito, mandata a memoria da generazioni di italiani. «Infinità» al posto di «immensità» non è un errore, ma il testo di una redazione antecedente della poesia che, composta a Recanati nel 1819, fu poi pubblicata in volume nel 1826. [Cds 22/2/2014].
 
Indigestione Sostiene Gennaro Cesaro sulla rivista Nuova antologia che Giacomo Leopardi non morì d’asma ma per via di un’indigestione. La mattina del 14 giugno 1837 ingurgitò un chilo di dolciumi alla cannella, bevve una tazza di brodo di gallina e una limonata gelata: la scorpacciata gli fu fatale. Cesaro si è basato su un’indagine di Nicola Ruggiero, collezionista di cimeli del poeta. Secondo Franco Foschi, presidente del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, l’ipotesi è «verosimile» [Cds 13/7/2001].
 
Tifo Leopardi, grande tifoso del “pallone col bracciale” (sport derivato dalla pallacorda che allora spopolava), tanto da cantar le lodi di un Carlo Didimi da Treia, fuoriclasse: «Di gloria il viso e la gioconda voce, garzon bennato, apprendi, e quanto al femminile ozio sovrasti la sudata virtude. Attendi attendi, magnanimo campion… ». Didimi guada­gnava non meno di 600 scudi ro­mani per esibizione, mentre un maestro elementare dello Stato Pontificio intascava dai 25 ai 60 scudi all’anno [Antonio Giuliano, Avv 7/4/2010].
 
Inserzione Il 13 febbraio 1828 apparve sul Giornale di commercio e di gratuita indicazione l’inserzione: «Un letterato, più addetto alla vita studiosa che a quella dell’uomo di mondo, vorrebbe trovare due stanze a dozzina, presso una famiglia fiorentina, per giovarsene dal principio di aprile alla fine di ottobre». Il letterato, che rimase anonimo, era Giacomo Leopardi: ritenendo disdicevole ricorrere a un’inserzione, chiese all’amico e mecenate Gian Pietro Vieusseux di scrivere per lui il testo dell’annuncio [Avv 28/11/2001].
 
Ranieri Passo tratto da una lettera scritta da Giacomo Leopardi all’amico Antonio Ranieri nel 1832, rubata nel 1975 e ritrovata in una parrocchia di campagna a Salice Salentino (Lecce): «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai mai, né ti raffredderai nell’amarmi... Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d’ogni cosa al tuo benessere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l’uno per l’altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio anima mia. Ti stringo al mio cuore che in ogni evento possibile e non possibile sarà eternamente tuo» [Lib 29/8/2002].
 
Tomba La storia della finta tomba di Leopardi davanti alla chiesa di San Vitale a Fuorigrotta, a Napoli: Giacomo Leopardi, domiciliato a Napoli in vico Pero 2, morì il 14 giugno 1837, mercoledì, mentre a Napoli infuriava il colera, e come voleva la legge venne sepolto (il giorno 15) nel Camposanto dei colerosi, in una fossa comune. Lo attesta il registro dei morti della parrocchia dell’Annunziata di Fonseca, competente per territorio. Il pasticcio della finta tomba, a fin di bene, lo combinò l’amico del poeta, Antonio Ranieri, a cui non dovette sembrare giusto che la memoria di Leopardi non avesse, a Napoli, un luogo di riferimento. Con la complicità del parroco di San Vitale, fece seppellire sotto l’altare una cassa contenente alcuni indumenti e alcune ossa prese chissà dove; e poi, dopo qualche anno, fece trasferire la finta tomba del poeta fuori dalla chiesa, in un piccolo monumento opera dell’architetto Michele Ruggiero. Il 28 luglio 1900, in seguito ad alcuni lavori di ristrutturazione, il monumento a Leopardi venne spostato. La cassa venne aperta e si scoprì... che era vuota! [Sebastiano Vassalli, Cds 28/7/2004].