Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 07 Giovedì calendario

«Dc, ma galantuomo» (art luglio-agosto 2006)

L’Europeo, luglio-agosto 2006
Le speranze di rinnovamento della Sicilia cominciano a spegnersi là, sul marciapiedi di viale della Libertà, a Palermo, nella fredda e grigia mattina del 6 gennaio 1980. Epifania di morte e dolore. Tramonto d'una politica "dalle carte in regola", d'una idea di sviluppo economico e civile liberato dall'ombra della mafia. La vittima:

Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, democristiano. Il killer: un picciotto di mafia, con altri tre complici. I mandanti: la cupola dei boss, da Michele Greco a Pippo Calò, da Totò Runa a Bernardo Provenzano. Il movente: mettere per sempre a tacere chi ostacola gli affari di Cosa nostra nel mondo degli appalti e dei mille finanziamenti d'una regione tradizionalmente prodiga e disinvolta. Piegare la politica alla mafia, insomma. E mantenere l’equilibrio delle cosche che fanno e disfano quel che più gli conviene – potere, interessi, traffici di droga, controllo dei lavori pubblici – mentre lo Stato guarda distrattamente e blandamente interviene.

L’assassino di Mattarella è dunque repressivo. E preventivo: evitare che altri pubblici amministratori insistano sul "buon governo" e la trasparenza. Non è il primo omicidio, nella stagione della nuova violenza mafiosa. Sono stati già uccisi un colonnello dei carabinieri, Giuseppe Russo, un cronista del Giornale di Sicilia, Mario Francese, il segretario palermitano della Dc, Michele Reina, il capo della squadra mobile della questura, Boris Giuliano, un giudice abile e coraggioso, Cesare Terranova. E altri ne sarebbero seguiti, magistrati, politici, giornalisti, uomini della polizia e dei carabinieri, il segretario regionale del Pci Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e via via continuando, sino alle bombe della primavera-estate del 1992 per stroncare la vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Una lunga, devastante "mattanza" di corpi e d'anime, vite e pensieri. Cronache criminali e cronache della politica e dell'economia che s'intrecciano. E veleni che si diffondono, dalla Sicilia a Roma e a Milano. Pagine nere, nella drammatica storia della Repubblica.

 

Il killer dagli occhi di ghiaccio
Mancano pochi minuti alle 13 del 6 gennaio. E i Mattarella – Piersanti, la moglie Irma, la madre e i due figli – scendono da casa, un grande appartamento d'un palazzo di buona borghesia nella zona residenziale della città, per andare all'ultima messa del mattino, nella chiesa di San Luigi. Salgono sull'auto del presidente, una Fiat 132. Niente uomini di scorta, il presidente li lasciava sempre liberi nei giorni di festa. L'atmosfera è tranquilla, rilassata. E nessuno si accorge d'un giovane che avanza, a passi rapidi, sino allo sportello del guidatore. Gli spari arrivano improvvisi, secchi, brutali. Mattarella, colpito da parecchi proiettili, s'accascia sul volante. La moglie gli si butta addosso, per proteggerlo e viene ferita, di striscio, a una mano. Ha il tempo di guardare in faccia l'assassino, notare "gli occhi di ghiaccio". E nulla più. Il killer si allontana velocemente, sparisce protetto da un gruppetto di complici. E attorno a quell'auto, a quell'uomo morente, si scatena l'inferno.

Accorre il fratello, Sergio, professore universitario, si fermano i passanti, si cerca convulsamente d'organizzare i soccorsi, verso il più vicino ospedale. Sono lì, per caso, due fotografi del quotidiano L'Ora, Letizia Battaglia e Franco Zecchin, capiscono subito la portata dell'assassinio, cominciano a scattare, sgomenti, turbati, lucidissimi, come sa fare chi ha già visto, per mestiere, altre tragedie, altre morti. E sulle loro pellicole rimangono impressi il volto dolente di quell'uomo ferito, il suo impermeabile chiaro macchiato di sangue, le facce stravolte dei soccorritori.

Poche ore dopo quelle foto campeggiano sull'edizione straordinaria che L'Ora manda in edicola, le cronache, le ricostruzioni dell'agguato, i retroscena dell'assassinio dell'uomo politico più in vista della Sicilia. “Dc, ma galantuomo”, recita il titolo a tutta pagina della biografia del presidente. Un titolo aspro, che non piacerà a molti democristiani siciliani, per la contrapposizione polemica tra un partito discusso e un uomo integerrimo. Forse un titolo eccessivo, manicheo. Ma netto, nel cogliere tutto il dramma che la morte di Mattarella scatena sulla politica siciliana: la contraddizione tra le ombre d'una contiguità più volte denunciata tra parti della Dc e cosche mafiose e l'intransigenza di un uomo di governo che proprio contro quelle ombre aveva dato battaglia.

«Una politica dalle carte in regola», aveva annunciato infatti Mattarella, come programma del suo governo regionale, nato nel 1978 con la partecipazione di De, Psi, Pri e Psdi e con l'appoggio esterno del Pci. Una politica spezzata dai colpi di pistola di quel 6 gennaio. Il presidente muore mezz'ora dopo, in ospedale. E con lui sembra spegnersi l'anima buona d'una Sicilia inutilmente in cerca di riscatto.

Ritratto di un onesto
Piersanti Mattarella, in politica, è un figlio d'arte. Nato a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, il 24 maggio del 1935, è il primogenito di Bernardo, uomo di punta della De siciliana fin dal primi anni del dopoguerra, notabile potente, più volte ministro, finito anche nel mirino delle polemiche di Danilo Dolci, il sociologo protagonista di parecchie battaglie civili contro le contiguità tra mafia e Dc. Piersanti sta alla larga dagli ambienti trapanesi. Frequenta i circoli dell'associazionismo cattolico, studia giurisprudenza (diventerà giovanissimo professore universitario di Diritto civile) e s'appassiona alla politica, cominciando nel 1961 come consigliere comunale democristiano a Palermo. Anni difficili, quelli: è la stagione del saccheggio urbanistico della città, dominata da Salvo Lima, Giovanni Gioia e Vito Ciancimino, tutti e tre ben collegati ai boss di Cosa nostra che fanno fortuna con le licenze edilizie. Ma anche anni intensi. I fermenti di rinnovamento del mondo cattolico, sulla scia del Concilio Vaticano II, trovano spazio pure in Sicilia.

E nella Dc cresce una leva di giovani (Mattarella, Rosario Nicoletti, Lillo Mannino) che raccolgono l'eredità politica e morale dei Vanoni, dei Dossetti e dei La Pira e militano nelle correnti di sinistra di Forze nuove o nella pattuglia di Aldo Moro, cercando vie di rinnovamento, fuori dai più vecchi giochi delle compromissioni e delle clientele. Mattarella, legatissimo a Moro, fa rapidamente strada. Deputato regionale nel 1967, assessore nel 1971 (Fanno della morte del padre) e poi, finalmente, presidente della Regione nel 1978. Entra a Palazzo d'Orléans, ironia della storia, il 16 marzo, proprio nel giorno del rapimento del suo maestro, Moro. E quella nomina è il momento migliore della stagione del “patto autonomistico”, un'intesa politica tra De, Pci e Psi per riformare radicalmente leggi e consuetudini della Sicilia, rilanciando un'autonomia regionale, ricca di poteri e risorse, come strumento di sviluppo economico e civile. Strada impervia, naturalmente. Ma percorribile. Le riforme vengono avviate: moralizzazione degli appalti pubblici, modernizzazione della pubblica amministrazione, programmazione degli investimenti, legge urbanistica che riduce gli indici di edificabilità contro l'ingordigia degli speculatori, efficienza degli enti economici della Regione. È la stagione della nuova Sicilia, di cui Mattarella è alfiere. Ma le forze contrarie sono potenti, dure, ben radicate.

La brutta storia degli appalti
Prendiamo gli appalti, per esempio. Irregolari. Truccati. Di favore, a vantaggio di imprenditori piccoli e grandi collusi con la politica e, spesso, con la mafia. Mattarella impone controlli severi. Manda ispezioni. E insiste sulla trasparenza. Fa anche un 11 | patto segreto con un giovane cronista de L'Ora che indaga sull'appalto sospetto per la nuova aerostazione di Punta Raisi, a Palermo, e sulle manovre dell'assessore regionale ai Lavori pubblici del tempo: «Lei mi porti le prove delle irregolarità, io le chiarirò il contesto e prenderò provvedimenti». Per mesi, presidente e giornalista si incontrano al mattino presto, in un ufficio riservato di Palazzo d'Orléans, lontani da occhi indiscreti. Leggono documenti, perizie, delibere, ricorsi. La campagna di Stampava avanti. L'appalto è annullato. E l'assessore costretto alle dimissioni. Un passo avanti nella moralizzazione. Ma anche la conferma, agli occhi dei boss e degli imprenditori complici, della pericolosità di quel presidente.

Un pericolo anche per gli equilibri di potere all'interno della De. Perché nel 1979 Mattarella va dal segretario nazionale democristiano Benigno Zaccagnini, “L’onesto Zac”, per chiedergli di commissariare il partito a Palermo: si perdono i legami con gli ambienti migliori del retroterra cattolico – spiega Mattarella – ritorna con forza l'influenza di Vito Ciancimino e Salvo Lima, si consolidano i "rapporti con ambienti mafiosi". Ma il rinnovamento, partito con serietà d'intenti, si spegne tra le velleità della propaganda. La mafia non lascia spazi e per dare un segnale forte, intimidatorio, nel marzo del 1979 uccide Michele Reina, segretario della De di Palermo, uomo di fiducia di Lima (che pur timidamente aveva provato ad affrancare il partito dal dominio mafioso).

La crisi, nella De e nello schieramento del "patto autonomista", è devastante. A Palazzo dei Normanni, sede del parlamento siciliano, le leggi di riforma si impantanano nella palude degli interessi più conservatori. Nel 1979, il Pci ritira il suo appoggio esterno al governo Mattarella, deluso dai tempi lunghi e lenti del rinnovamento. E il presidente si ritrova più debole e più solo.

La riorganizzazione mafiosa
Affari, ombre in movimento, trame. E violenza. Nella seconda metà degli anni Settanta le cosche mafiose vivono una stagione straordinaria d'attività. Ai vecchi boss Luciano Liggio, Tano Badalamenti e Gerlando Alberti si affiancano capi cosca intraprendenti e spregiudicati, come Stefano Bontade (elegante figlio di don Paolino Bontà, capomafia ben collegato fin dai primi anni Cinquanta con la politica, l'economia delle aziende pubbliche e i clan di New York) e Totuccio Inzerillo. A Ciaculli e Croce Verde, borgate di periferia, dominano le famiglie dei Greco, ben connesse con la “borghesia mafiosa” palermitana. Crescono le imprese dei costruttori di Cosa nostra, come Rosario Spatola, i Gambino e i Di Maggio. Dalle campagne di Corleone e della provincia di Trapani si fanno avanti i picciotti sanguinari come Totò Riina e Bernardo Provenzano o i ragazzi Brusca. E a Catania, sulla malavita locale, s'afferma il potere del clan di Nitto Santapaola. Gli interessi di sempre, il "pizzo" estorto a commercianti e imprenditori in cambio di protezione e favori, le licenze edilizie, gli appalti pubblici. E un nuovo ricchissimo filone d'affari: non solo il traffico della droga, ma anche la raffinazione dell'eroina, nei casolari protetti delle borgate della periferia di Palermo.

Le famiglie siciliane fanno il salto imprenditoriale: non si limitano al ruolo di “corrieri”, come negli anni Sessanta, ma importano, trasformano ed esportano droga, con una funzione chiave lungo i grandi assi internazionali del traffico: il Sudamerica, il Medio Oriente, l'Europa, gli Usa. Prestigio, potere e ricchezza: un fiume di soldi, mai cosi tanti. E un nuovo peso, imprenditoriale e politico. Quei soldi, infatti, vanno riciclati, fatti confluire nelle banche, reinvestiti in attività apparentemente legali, fatti fruttare e spesi ancora in nuovi traffici di droga. E di armi.

Palermo capitale criminale
Palermo non è più provincia, ma capitale d'un mondo criminale in espansione. A Palermo arriva la morfina base, da raffinare. Da Palermo partono enormi carichi di eroina e cocaina, diretti verso NewYork (c'è perfino un volo diretto Punta Raisi Kennedy Airport, ribattezzato “l'aereo del Padrino”). A Palermo tornano valigie di denaro (due, con 500mila dollari in contanti, vengono intercettate e sequestrate proprio all'aeroporto di Punta Raisi dalla squadra mobile di Boris Giuliano). E a Palermo, protetto dalle cosche degli Spatola, dei Gambino e degli Inzerillo, si rifugia nell'estate del 1979 Michele Sindona, finta vittima di un rapimento a New York, dove è sotto inchiesta per bancarotta: incontra mafiosi, massoni e faccendieri d'ogni tipo, vaneggia manovre politiche sino a spingersi nel prefigurare un colpo di Stato sicilianista, cerca via d'uscita dai guai giudiziari americani sollecitando protezioni in un mondo politico e finanziario che sino a pochi anni prima gli era stato amico. Mafia, politica e finanza, ancora una volta. E sangue. L'11 luglio del 1979 un killer pagato da Sindona uccide a Milano Giorgio Ambrosoli, il liquidatore dell'impero di carta del bancarottiere. Il 21 luglio, a Palermo, viene assassinato Boris Giuliano, il poliziotto che indaga sui traffici di droga e di denaro sporco. A Roma esplode lo scandalo della loggia massonica P2 di Licio Gelli, un'organizzazione segreta che annovera tra i soci politici, generali, uomini della finanza, giornalisti, editori, boss mafiosi, imprenditori senza scrupoli e, tra i tanti, anche Sindona e un altro potente banchiere, Roberto Calvi, che Cosa nostra provvedere a uccidere un paio d'anni dopo. Un ciclone criminale.

Il retroscena del delitto

Chi lavora a Palermo, di quel ciclone avverte la portata, anche se ne sfuggono molte implicazioni (saranno necessari anni di indagine successivi, di inchieste giudiziarie e di confessioni di "pentiti" di mafia, a cominciare da Tommaso Buscetta, per averne il quadro esatto). Sulle pagine de L'Ora le cronache e le inchieste antimafia insistono sul ruolo politico e criminale di don Vito Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti proprietari delle esattorie regionali, sui costruttori mafiosi, sugli appalti, sul riciclaggio del denaro. Polizia e carabinieri indagano. In procura e all’Ufficio istruzione si cominciano a formare i dossier da cui poco dopo il pool di Falcone e Borsellino partirà per i maxiprocessi. E nei palazzi della Regione? Mattarella va avanti con la sua opera di moralizzazione. Dispone ispezioni sugli strani appalti vinti dagli Spatola (i protettori di Sindona) per costruire parecchie scuole e riesce a bloccarli. Insiste per fare funzionare il suo governo. Ma tra crescenti difficoltà. E nelle ultime settimane dell'anno cerca ascolto anche a Roma. Va dall'amico Virginio Rognoni, ministro degli Interni, per raccontargli che cosa sta succedendo sulla platea e dietro le scene della politica siciliana. Subito prima di partire confida alla dirigente della sua segreteria, Maria Grazia Trizzino: «Se mi dovesse accadere qualcosa, si ricordi di questo viaggio».
Qualcosa accade. I colpi di pistola nella livida mattinata dell'Epifania 1980. La morte d'un uomo giusto.

Indagini difficili
Nemmeno le indagini riescono a essere chiare, lineari, capaci di accertare rapidamente la verità. Dell'omicidio viene accusato un killer neofascista, Giusva Fioravanti, presunto assassino del giornalista Mino Pecorelli (per la cui morte sarebbe stato mandato sotto processo Giulio Andreotti, poi assolto). Partono calunnie e manovre diversive di falsi "pentiti". E finalmente, dopo quasi vent'anni, si arriva alla verità, con una sentenza, confermata nel 1999 dalla Cassazione, che condanna i boss della cupola mafiosa per gli omicidi Reina, Mattarella e La Torre: «Delitti riconducibili a un interesse di comune rilievo dell'intera organizzazione criminale».

Mattarella, in particolare, «è stato ucciso perché si era posto come obiettivo la moralizzazione della vita pubblica», opponendosi «a irregolarità nell'assegnazione degli appalti». Una morte, insemina, per la pretesa delle carte in regola. Che in regola, ancora, tanti anni dopo, non sono affatto tornate.

Antonio Calabrò