Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 18 Giovedì calendario

Biografia di Giovanni Leone

Napoli 3 novembre 1908 – 9 novembre 2001. Politico. Dal 24 dicembre 1971 al 15 giugno 1978 presidente della Repubblica. In precedenza era stato anche presidente della Camera dei deputati e presidente del Consiglio, oltre che deputato all’Assemblea Costituente per la Dc di cui fu uno dei fondatori in Campania. Giurista, pubblicò più di cento libri e monografie.

• Laureato in Giurisprudenza e Scienze politiche, nel 1932 ottenne la libera docenza in Diritto e Procedura penale; professore di ruolo dal 1935, ha insegnato nelle università di Bari, Napoli e Roma. Eletto deputato con la Dc nel ’46, fu presidente della Camera dal 1955 al 1963 e presidente del Consiglio (nel 1963 e nel 1968) di due governi monocolore Dc, nati in entrambi i casi come esecutivi di transizione (detti “balneari”).

• Eletto presidente della Repubblica al ventitreesimo scrutinio, il 24 dicembre del 1971, con 518 voti. Furono decisivi i voti del Msi e l’imprevisto appoggio di La Malfa. Nei sedici giorni che avevano impegnato i grandi elettori a Montecitorio era già stata bruciata la candidatura di Fanfani, prima e quella di De Martino poi. All’antivigilia di Natale, in pieno stallo, Aldo Moro avrebbe potuto raccogliere un’ampia maggioranza. Enrico Berlinguer aspettava che i gruppi parlamentari democristiani, riuniti nella notte, facessero quel nome. Ma Moro, preoccupato dell’unità del suo partito, non volle autocandidarsi, così la Dc scelse Giovanni Leone.

• Si dimise da presidente della Repubblica sei mesi prima della scadenza del mandato, a seguito di aspre polemiche e accuse, rivelatesi poi infondate, riguardanti lo scandalo Lockheed. Questo il caso: in seguito a rivelazioni venute direttamente da Washington (il cosiddetto «Rapporto Church», dal nome del parlamentare che aveva condotto l’inchiesta) si venne a sapere che l’americana Lockheed aveva pagato bustarelle miliardarie per piazzare i suoi grandi Hercules da trasporto truppe in Paesi alleati degli Stati Uniti, dall’Olanda al Giappone: e anche in Italia. In un piccolo «Libretto Nero» dei dirigenti Lockheed e in altri documenti acquisiti all’inchiesta era scritto che tra i destinatari delle tangenti, oltre al ministro della Difesa e ai suoi collaboratori, c’era un presidente del Consiglio indicato col nomignolo in codice di Antelope Cobbler. Letteralmente, scritto così, il nomignolo vuol dire «Antilope Ciabattino». Ma se si scrive «Gobbler», con la «g» iniziale, il senso del nomignolo diventa «Ingoiatore di antilopi» o «Divoratore di antilopi». Nel periodo in cui le bustarelle erano state pagate alla presidenza del Consiglio si erano succeduti tre democristiani: Mariano Rumor, Giovanni Leone e Aldo Moro. Così tutti pensarono a Leone. «A Leone la dignità politica fu portata via nell’estate del 1978. L’immagine drammatica del capo dello Stato e della sua famiglia costretti a lasciare anzitempo il Quirinale per effetto dello scandalo Lockheed resterà a lungo fissata nell’immaginario collettivo del Paese. Così come accadde per la fuga dei Savoia. “Da quelle sofferenze mi hanno salvato la fede e la famiglia”, confessò Leone. Poi si scoprirà che non era lui, l’allievo prediletto di Enrico De Nicola, l’Antelope Cobbler sbattuto in copertina da L’Espresso. Nonché il Barabba democristiano messo in croce da Camilla Cederna con il pamphlet al cianuro La carriera di un presidente. La giornalista e l’editore Feltrinelli in seguito furono condannati da un tribunale per aver scritto il falso. Ma la vita politica di Leone si era spezzata definitivamente in quei mesi terribili e dolorosi del 1978. Quelli a cavallo tra il rapimento di Aldo Moro (16 marzo) e le dimissioni di Leone (15 giugno). Cento e passa giorni in cui lo scandalo Lockheed, il “piccolo Watergate” all’italiana, venne usato a mo’ di clava dalla Dc (Zaccagnini-Andreotti) e dal Pci (Berlinguer). Insomma, non si trattò soltanto di una “congiura dell’opinione pubblica”. Nei Palazzi della politica, infatti, già si era aperto un nuovo fronte di divisione sull’atteggiamento da assumere rispetto alle Brigate rosse, che tenevano in ostaggio Aldo Moro. Un contrasto forte tra il “fronte della fermezza” e quello dei “trattativisti”. Per le strade della Capitale i militanti radicali di Marco Pannella giravano con i cartelli per chiedere le dimissioni del capo dello Stato. Una protesta di cui, anni dopo, Pannella si pentirà. Anche Ugo La Malfa sembrava invitare Leone alle dimissioni. E sullo stesso tasto battevano, magari con scopi diversi, i fedelissimi di Fanfani. Scrive nel suo libro di memorie l’ex segretario del Quirinale, Sergio Piscitello: “Credo che Leone, personalmente, fosse favorevole a una qualche forma di trattativa per salvare la vita di Moro”. Confessò al giornalista Pasquale Nonno lo stesso presidente: “Io sostenevo una posizione di buon senso”. Resta, comunque, ancora un certo alone di mistero sul perché in quelle ore convulse la Dc non prese mai una posizione forte contro l’onda alta dello scandalo Lockheed. Bufera che stava investendo la prima carica dello Stato. E con Leone la stessa Dc. Eppure il presidente era pronto a reagire a quelle accuse infamanti. Tant’è. La sera del 15 giugno 1978 Leone esce per l’ultima volta dal portone del Quirinale su un’Alfa blu. Gli fanno compagnia la moglie Vittoria Michitto e i due cani cockers. “Tappo” viene immortalato dai fotografi sulle gambe dell’ex First Lady. I tre figli, Mauro, Paolo e Giancarlo, detti i “tre monelli” per alcuni atteggiamenti ritenuti per i tempi troppo spregiudicati e anticonformisti, l’aspettano nella villa Le Rughe sulla via Cassia. Quella che diventerà la “piccola Cascais“ romana del presidente deposto». [Fernando Proietti e Giovanna Cavalli, Corriere della Sera 10/11/2001]

• Conobbe la moglie, Vittoria Micchitto, quando lei aveva solo 17 anni. Si presentò in casa sua con la divisa di tenente colonnello del tribunale militare di Napoli, invitato dal fratello di lei. Se ne innamorò, la sposò nel giro di qualche mese, il 15 luglio del ’46, nella cappella di famiglia dei Micchitto. Tra i testimoni Enrico De Nicola. «Venne poi la stagione della preoccupazione e del dolore per i primi due figli, ma Vittoria voleva una famiglia normale, felice e la ottenne. Nacquero Paolo e Giancarlo e, intanto, Giovanni Leone, da costituzionalista e membro della Costituente che era stato, cominciò la sua ascesa di politico. A Roma, Vittoria Leone si occupò del marito e del primogenito Mauro, ancora sofferente per i postumi della poliomelite, mentre la quotidianità dei più piccoli Paolo e Giancarlo veniva gestita da una governante inglese». [Maria Latella, Corriere della Sera 10/11/2001]

• «Nell’album di famiglia del presidente Leone c’è una fotografia dell’autunno ’75 rimasta giustamente famosa: prima di salire in macchina, rivolto agli studenti dell’Università di Pisa che lo avevano accolto con slogan ostili, il presidente alza la mano destra facendo le corna. Fa le corna anche con la mano sinistra all’altezza dell’inguine. Un gesto senza dubbio volgare, che suscitò proteste. Qualche caduta di gusto sarebbe certo stata perdonata al presidente se, nel frattempo, non si fossero fatti sempre più insistenti gli episodi che configuravano il Quirinale come un centro di favori e d’affari gestiti da vari membri della famiglia del presidente e dai suoi amici. Tra questi c’erano il fratello Carlo, titolare di uno studio di avvocato a Napoli, e il figlio Mauro allora appena trentenne che veniva pian piano promosso alla carica, inesistente nel nostro ordinamento, di “vicepresidente”. Una volta arrivò al Quirinale Aldo Moro, allora presidente della Dc, e Mauro era seduto, come sempre, a fianco del padre. Moro fece cenno che voleva restare solo con il presidente della Repubblica. Questi, un po’ imbarazzato, chiese: “Ma che, o’ guaglione non lo vulite?”. Moro fece di no con la testa e Mauro dovette uscire. Ma Pompidou invece non seppe dire di no quando, in occasione di un viaggio di Leone a Parigi, gli venne avanzata la richiesta d’insignire il “guaglione” della Legion d’onore». [Miriam Mafai, la Repubblica 10/11/2011]