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 2013  aprile 09 Martedì calendario

Vita degli undici presidenti al Quirinale (articolo del 7/4/2013)

la Repubblica, domenica 7 aprile 2013
Bellissimo, grandissimo, costosissimo, ingombrante e un po’ vuoto, il palazzo del Quirinale, detto anche di Monte Cavallo per via delle statuone dei Dioscuri con relativi destrieri che maestosamente lo fronteggiano, è impiantato a 57 metri e 20 centimetri sul livello del mare e nonostante sia di poco più basso dell’Esquilino è da tutti considerato "il colle più alto" - il che già dice abbastanza sui provvidi equivoci, ma anche sulle nefande e indispensabili ambiguità del potere.

Sarebbe giusto che fosse per davvero la Casa degli italiani, come la definiva Carlo Azeglio Ciampi. In realtà è molto di più, il Quirinale, e parecchio di meno, o di peggio, se si vuole: città proibita, gabbia dorata, caserma di lusso, museo d’arte e di capricci, crocevia inesorabile di nevrosi, grand hotel a tempo. Vi hanno abitato trentuno papi, quattro re sabaudi, undici presidenti della Repubblica. L’imperatore Napoleone, per il quale il palazzo venne ancora una volta riccamente decorato, non ha fatto in tempo a mettervi piede. In compenso dopo il sisma del Belice (1968) Saragat volle ospitare sedici famiglie di terremotati. Una giovane coppia procreò e il presidente fece da padrino al piccolo, battezzato Giuseppe. Come succede, fu poi molto complicato per l’amministrazione riprendere possesso degli appartamenti.

Con ispida diffidenza piemontese Vittorio Emanuele III definiva il Quirinale "Ca’ preive", la casa dei preti. Dopo aver sfrattato il pontefice, temeva evidentemente la doppia maledizione di don Bosco («gran funerali a corte») e Pio IX (dopo la presa di Roma ci furono in effetti alluvioni, epidemie e «flagelli - chiosò il pontefice - cui sembra che Dio abbia dato libero corso»). Quando anche i re sabaudi furono cacciati, nel 1946, lasciarono un debito di 165mila lire «per fornitura distintivi nodo di Savoia e corona», che la neonata Repubblica saldò con la vendita dei pinoli della tenuta di San Rossore. La nuova classe dirigente, in primis Andreotti, aggiornò il sortilegio, sia pure limitandolo ai presidenti Dc: oblìo per Gronchi, infarto per Segni, dimissioni per Leone, sofferenza per Cossiga; tutto sommato Scalfaro se l’è cavata.

Ma in termini di potere l’incantesimo pare estendersi anche a chi troppo agogna il Quirinale e quindi mai l’otterrà. Lungo l’elenco: Sforza, Merzagora, Fanfani, Moro, Spadolini, lo stesso Andreotti e anche Berlusconi che tre anni orsono, per l’ennesima volta chiamato a commentare l’ipotesi di una sua ascesa al Colle, si toccò scaramanticamente i testicoli, a riprova dell’energia magica e un po’ pazzoide che si tira appresso quel luogo, e non solo in Italia.

Nel periodo della follia più acuta (1888-89) Nietzsche scrisse del resto al suo amico Gast: «Il mio indirizzo non lo so più: poniamo che per il momento possa essere il palazzo del Quirinale». Di lì a poco, cantando canzoni napoletane, fu trasferito a Basilea, ma il filosofo si era convinto di essere il re d’Italia e giustamente non intendeva rinunciare a quella reggia dove pure - e ancora adesso, in omaggio allo specifico nazionale - la magnificenza finisce per convivere con un clima un po’ da operetta.

Fino a qualche anno fa la facciata dell’edificio era rossiccia, dal 2002 ha ripreso l’originale tinta bianco travertino che polemicamente Sgarbi ha designato «color meringa», e che fa il suo effetto soprattutto nelle giornate in cui il cielo è molto blu. Sul pennone sventola anche la bandiera della presidenza della Repubblica che Cossiga, appassionato vessillologo, ha ridisegnato di persona, pure imponendola alla magnifica Flaminia decapottabile su cui il presidente appena eletto fa il suo primo giro per Roma.

Nel 1920 il Quirinale fu sorvolato dall’aviatore dannunzian-futurista Guido Keller che vi precipitò delle rose rosse «per la regina e il popolo in segno d’Amore». Analogo omaggio floreale fu gettato sul Vaticano, «per frate Francesco», mentre il palazzo di Montecitorio ebbe in dono un pitale ripieno di carote e rape.

Non molto tempo fa è stato proposto di ribattezzare l’area antistante al Quirinale "Piazza degli italiani". Proposito fortunatamente scartato. Come spesso capita nella Città Eterna, all’ombra dell’obelisco, di Castore e Polluce e dei loro cavalli di marmo si contemplano ricordi belli e brutti. Per rimanere al passato prossimo, nel 1944 durante una dimostrazione un manifestante si fece scoppiare una bomba in faccia e il cadavere del poveretto, issato su un camioncino, prese a girare per Roma fino ad essere depositato al Viminale.

Ma durante il settennato di Ciampi, sempre in piazza, furono allestiti concerti e spettacoli all’aperto, anche la notte di Capodanno, condotti da Paola Saluzzi. Negli ultimissimi tempi vale ricordare la folla che ancora in questo spazio festeggiò la caduta di Berlusconi al suono dell’ Hallelujah di Handel, ma anche con un rapido lancio di monetine e sembra pure di una scarpa sull’automobile del Cavaliere. Ogni giorno si può assistere al cambio della guardia. Di tanto in tanto viene qualcuno a protestare, anche disperatamente. Nell’ottobre scorso un autotrasportatore rumeno, disoccupato e con cinque figli, si è spogliato e si è dato fuoco.

Il cortile d’onore è molto vasto. Là dove Grillo due settimane orsono si è fatto la foto-ricordo con i capigruppo del M5S, qualche secolo fa il primo maggio si impiantava l’Albero della Cuccagna ed erano allestite feste cui partecipavano anche trentamila persone. Pure i lussureggianti giardini del Quirinale coprono un’area così vasta che in passato alcuni funzionari si prendevano lo sfizio di attraversarli a cavallo.

È qui che di norma si ambienta il ricevimento del 2 giugno. Saragat volle aprire la festa della Repubblica a migliaia e migliaia di comuni cittadini, però in quel caso sparivano troppi cucchiaini e una volta, a party concluso, dentro una siepe di mortella venne rinvenuta una signora ubriaca come una cocuzza, come si dice. La descrizione di un ricevimento al Quirinale, però svoltosi al chiuso, è presente nel romanzo postumo di Pier Paolo Pasolini, Petrolio: "In cerchi concentrici attorno al Capo dello Stato, il verminaio era tutto un agitarsi di capini ora pelati ora canuti, ora folti ora radi: ma tutti assolutamente dignitosi".

All’interno del palazzo, pure segnato da un’indimenticabile scala elicoidale a misura di cavallo, opera del Mascarino, domina lo sfarzo e si accresce lo stupore, quest’ultimo stimolato da impreviste presenze e stranianti tipo mobili cinesi e salottini giapponesi. I corridoi degli uffici sono talmente larghi lunghi e lucidi che come in un film lo storico Segretario Generale Gaetano Gifuni, soprannominato "Prudenziano", li percorreva silenziosamente in monopattino.

Gli appartamenti presidenziali sono stati utilizzati dalle famiglie Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Ciampi e Napolitano. In quelli degli ospiti, fra i tanti hanno dormito Hitler, in compagnia di un busto di Augusto acquistato per l’occasione; e poi de Gaulle, per il quale fu costruito un enorme lettone, ma solo perché il leader francese era un gigante. In occasione di quella visita (1967) Saragat inaugurò il Torrino, la torre dell’orologio rifatta con materiali originali tardo cinquecenteschi, insediandovi la più alta e spettacolare sala da pranzo da cui si domina l’Urbe a 360 gradi. Saragat ebbe scontate critiche per gli acquisti massivi di champagne Krug, peraltro non italiano. Così come anche più fastidiose ne aveva dovute subire Einaudi per via del vino che produceva in Piemonte e con cui riforniva le cantine del Palazzo: in una vignetta Guareschi, che proprio per questa fu condannato alla galera, lo raffigurò mentre passava in rassegna delle bottiglie come se fossero corazzieri. Uno di questi ultimi, mezzo secolo dopo, si infatuò di Mariana Scalfaro, fastidiosamente chiamandola di continuo con uno dei primi telefonini, ma fu presto messo al suo posto.

Fra i capricci di Gronchi si annovera una sala interamente dedicata ai trenini elettrici e l’allestimento di una fantomatica, chiacchieratissima porticina sul retro del palazzo, da cui la leggenda che fosse riservata a giovani amiche per bunga bunga ante litteram. Donna Ida Einaudi si dedicò ai 200 preziosi orologi, molti a pendola, favorendo una complessa e quotidiana opera di sincronizzazione. A Cossiga si deve un centralino a prova d’intercettazione, una "Sala Situazione" iper tecnologica e l’esposizione, previo recupero dalle cantine, del trono dei Savoia, già appartenuto a Maria Luisa d’Austria. Per la verità il presidente picconatore spedì anche in Vaticano il Segretario Berlinguer per ottenere il trono papale, ma invano. Segni, su cui ebbero una certa influenza consiglieri militari, poliziotti e generali dei carabinieri, aveva un po’ il vizio delle microspie. Nei suoi colloqui politici Scalfaro coltivava invece il vezzo di un registratore tenuto acceso in bella posa su un tavolinetto.

Sul soggiorno dei Leone al Quirinale, dalla Cederna a Mino Pecorelli, si è scritto molto, anzi troppo e almeno a dar retta ai processi pure ingiustamente. Pertini aprì le porte ai giovani, espose i Bronzi di Riace e invitò a pranzo quelli del settimanale satirico Il Male che con dissacrante ribalderia si presentarono avendo in tasca una canna già pronta, ma poi non l’accesero perché a tavola il presidente se ne uscì: «Droga leggera o pesante, io darei a tutti la pena di morte».

Per il resto, che è ancora tantissimo, il Palazzo offre inesauribili risorse narrative. Basti pensare ai tesori d’arte che esso esibisce e al tempo stesso un po’ nasconde: 300 dipinti antichi, 2000 opere dell’Ottocento e del Novecento, 261 arazzi, 38mila pezzi di porcellana, capolavori di ebanistica e menuisiers, più 90 carrozze, una splendida collezione di livree, e tappeti, argenti, maioliche, cristalli, bronzi, stampe, marmi classici.

Neanche a farlo apposta, in questi giorni è aperta una mostra sui "Capolavori ritrovati" del Quirinale. Anche il sottosuolo offre infatti sorprese archeologiche che a loro volta aprono il campo a indizi, coincidenze e cortocircuiti che ci si farebbe anche scrupolo a sottolineare, ma tant’è. Per cui i dieci Saggi o Facilitatores nominati da Napolitano si riuniscono a Palazzo Sant’Andrea, e forse non tutti sanno che proprio lì sotto è resistita nei millenni l’ara che delimitava le fiamme dell’incendio appiccato da Nerone nel 64 dc, e su cui fin dai tempi di Domiziano si facevano sacrifici per scongiurare fuochi violenti e incontrollati come quelli che s’intravedono nell’infiammabile Italia della primavera 2013.

Filippo Ceccarelli