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 2012  agosto 11 Sabato calendario

Oggi c’è da imparare un’espressione nuova: “golden share”. Ho controllato: in sei anni di conversazioni non l’abbiamo mai adoperata

Oggi c’è da imparare un’espressione nuova: “golden share”. Ho controllato: in sei anni di conversazioni non l’abbiamo mai adoperata.

Io però una mezza idea di quello che significa ce l’ho. “Golden” vuol dire “d’oro”, e “share” significa “azione”. Chi, tra i soci di un’azienda, possiede un’azione d’oro, cioè una golden share, ha poteri speciali, può bloccare questa o quella iniziativa o impedire l’ingresso di questo o quel socio. Basta una sola golden share per avere questo potere colossale.

Bravo, è proprio così. E chi può avere un potere tanto speciale? Ci pensi: non è poi così difficile.

Lo Stato?

Bravo per la seconda volta. Ora ci sarebbe da specificare in quali aziende lo Stato può ottenere o pretendere una “golden share”. E la risposta è abbastanza logica, se ci pensa: nelle aziende di interesse nazionale. E quali potrebbero essere le aziende di interesse nazionale? Anche qui non è difficile rispondere: le aziende che si occupano di energia, soprattutto nel senso che hanno il compito di rifornire di energia il Paese; le aziende dei trasporti, che potrebbero, se in mani nemiche, paralizzare il Paese rifiutandosi di funzionare (questo era il miglior argomento, all’epoca, contro la vendita di Alitalia a Air France); le aziende di telecomunicazioni, e specialmente le aziende di telecomunicazioni che possiedono la rete di telecomunicazioni (anzi, bisognerà dire che tutte le aziende che possiedono reti sono strategiche e dovrebbero essere in mano pubblica o, se private, fortemente controllate nelle scelte strategiche dallo Stato, cosa che si può ottenere, appunto, con la golden share); ovviamente, e avrei dovuto metterla al primo posto, le aziende che si occupano di difesa, come da noi Finmeccanica, per esempio. I francesi hanno a suo tempo dichiarato di interesse nazionale tutto il settore lattiero-caseario, cosa che ha bloccato ogni tentativo di penetrazione straniera, per esempio italiana, in quel settore. In quel settore noi avevamo Parmalat che non potè concludere qualche incursione al di là delle Alpi. Loro invece sono venuti a conquistare da noi, dato che noi non avevamo adottato lo stesso criterio (e in effetti non si vede come la produzione di latticini e formaggi possa essere strategica). Lactalis, come saprà, a un certo punto s’è comprata Parmalat e l’ha svuotata del denaro col trucco di venderle le sue attività americane, appena create e supervalutate. Niente golden share, e lo straniero fa quello che vuole. I tedeschi, d’altro canto, difendono a fendenti di golden share la Volkswagen e anche qui non è chiaro il significato strategico di una fabbrica di macchine. La Ue l’ha severamente richiamata, ma è stato inutile. Tedeschi e francesi sono più forti della Ue.

È un tema di grande interesse, ma non ho capito perché ce ne stiamo occupando a poche ore dal Ferragosto.

Perché ieri in consiglio dei ministri, tra le tante cosucce discusse, c’è stato anche il varo di un decreto legge che definisce «il perimetro e i contenuti» della golden share. Quando esercitarla, come, dove eccetera. L’iniziativa di Monti risponde anche alle molte sollecitazione della Ue, che ci invita da un anno a rendere obiettivi questi criteri, cioè non soggetti al capriccio e alla discrezionalità di chicchessia. Si vorrebbe naturalmente che questi criteri valessero per tutti – in primis francesi e tedeschi – e ci si domanda perché non vengono addirittura fissati a Bruxelles.

Lei pensa che, con questo caldo, un argomento simile sia davvero tanto appassionante?

Dobbiamo vendere i nostri gioielli, come ho già spiegato ieri. Che succede se qualcuno se li compra prima che facciamo in tempo a fiatare? O se quelli a cui li vendiamo si mettono a fare i padroni in casa nostra come, per esempio, quelli di Lactalis? La golden share, che tenga a bada stati e multinazionali troppo furbi, ci vuole. Tenga conto che si aggirano nella giungla finanziaria del Pianeta delle bestie colossali che si sono già pappate asset per 4.600 miliardi di dollari. Sono i fondi sovrani, che controllano a questo punto il 6% del Pil mondiale senza che, per la maggior parte di loro, nessuno conosca non dico i bilanci ma neanche i nomi dei proprietari. Queste bestie sono già all’opera in Italia: hanno in pancia il 36% della Borsa di Milano, favoriti, da noi, dal fatto che crolli e spread hanno ridotto i valori delle nostre aziende a cifre da mercato delle pulci. Conosciamo bene la presenza dei norvegesi, tra i pochi a essere trasparenti, e sappiamo anche che Unicredit – tra libici e sauditi - è quasi più araba che italiana. Ma il resto?

E il libero mercato?

Ma di fronte a forze finanziarie di questa portata, di fronte all’esistenza di un circuito bancario parallello al quale nessuno di noi può accostarsi, circuito che vale migliaia di miliardi di dollari (ne parleremo un’altra volta) e di cui nessuno sa niente, in che senso parliamo ancora di “libero mercato”? Fa bene Monti a dotarsi della golden share, che io preferisco tradurre “spada d’oro”. E farà ancora meglio a sguainarla, qualche volta, questa spada.


[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 11 agosto 2012]