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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Antonio Nirta

• San Luca (Reggio Calabria) 22 aprile 1919. ’Ndranghetista, secondo la relazione annuale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla ’ndrangheta del 2008, «non un boss qualsiasi, ma uno dei capi storici della ’ndrangheta, protagonista della faida che ha portato alla strage di Duisburg».
• Detto Due nasi (dalle due canne della doppietta).
• Subisce la prima diffida di pubblica sicurezza nel 53, e viene condannato per associazione a delinquere nel 70, quando ancora non esisteva l’associazione di stampo mafioso: due anni e sette mesi per essere stato sorpreso, il 26 ottobre 1969, nella riunione annuale della ’ndrangheta, che quell’anno si teneva a Montalto, anziché a Polsi, nell’Aspromonte, vicino al Santuario della celebre Madonna (secondo alcuni pentiti fu messa all’ordine del giorno la decisione di far aderire la ’ndrangheta al progetto del golpe Borghese). È un caposquadra della forestale in pensione, nel 2004, quando subisce un sequestro preventivo su ordine del Tribunale di Reggio Calabria, per sei milioni di euro. Per il resto la sua storia è raccontata da sentenze di assoluzione e da dichiarazioni di pentiti. A partire da Giacomo Lauro e Filippo Barreca, i due pentiti storici della ’ndrangheta, in origine coperti con le sigle “alfa” e “beta”, che nel 94, raccontando dell’ingresso della ’ndrangheta nella massoneria deviata (anno 1979), fanno il nome, tra gli altri, di Antonio Nirta (vedi Pasquale Condello, Giorgio De Stefano).
• Così l’onorevole Francesco Forgione nella relazione sulla ’ndrangheta del 2008: «Naturalmente l’inserimento nella massoneria, che per quanto inquinata, restava pur sempre un’organizzazione molto riservata ed esclusiva, doveva essere limitato ad esponenti di vertice della ’ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società. Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, che restavano in vigore solo per i gradi meno elevati e per gli ingenui, ma non vincolavano certo personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello Stato, servizi segreti, gruppi eversivi. Persino l’attività di confidente, un tempo simbolo dell’infamia, era adesso tollerata e praticata, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori».
• Il suo nome è stato fatto più volte da un altro pentito storico, Saverio Morabito (maxi-inchiesta “Nord Sud”). A proposito dell’omicidio del boss Antonio D’Agostino, nato nel 39, ammazzato a Roma il 2 novembre 1976, Morabito, nel 92, disse: «Quello che so io è che l’omicidio di Totò D’Agostino era voluto da Antonio Nirta. Perché Antonio Nirta aspirava a diventare il numero uno di tutta la Calabria e Antonio D’Agostino gli poteva creare degli ostacoli a questa sua ascesa per via delle conoscenze politiche, delle sue capacità produttive che aveva all’interno della sua organizzazione…» (per il delitto era già stato condannato all’ergastolo Domenico Papalìa, che nel 93 ottenne la revisione del processo). Ma soprattutto Morabito dichiarò che Nirta era stato il confidente del generale Francesco Delfino (nelle indagini condotte sui sequestri di persona a Milano negli anni Settanta), e che partecipò al rapimento Moro («Quel giorno in via Fani c’era anche Antonio “Due Nasi”, sì, Antonio Nirta. Era stato infiltrato, attraverso i servizi, nelle Brigate rosse. Ed era lì, la mattina che hanno rapito Moro»). Delfino viene accusato di aver lasciato eseguire due sequestri nel 77 (a Milano, quando comandava il Nucleo operativo dei carabinieri), di aver fatto arrestare solo alcuni rapitori (con tanto di premio per il merito), e di avere poi diviso con la sua fonte i soldi destinati agli informatori. Interrogato, nega l’addebito (infatti finisce tutto archiviato), ma nicchia su Nirta: «Morabito forse ha raccolto alcune voci. Anche negli ambienti dell’Arma si parlava di un Nirta in via Fani». Va detto che Nirta e Delfino erano compaesani, e che il padre del generale era quel maresciallo dei carabinieri (di nome Giuseppe, ma per tutti Massaro Peppe), che a San Luca, nel primo dopoguerra, era incaricato di garantire l’ordine pubblico in occasione della Festa della Madonna di Polsi (il vescovo voleva lui e solo lui).
• A proposito di sequestri, Nirta è tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior (nipote del magnate inglese Paul Getty), rapito a Roma il 9 luglio 1973, ma viene assolto per insufficienza di prove (il ragazzo, sedici anni, viene liberato dopo 158 giorni, il riscatto costa alla famiglia 1 miliardo e 700 milioni, al ragazzo il taglio del lobo di un orecchio).
• L’accusa non riesce a farlo condannare per associazione mafiosa neanche nello storico processo “Condello + 202” (fondato su dichiarazioni dei pentiti e intercettazioni ambientali), dove è imputato, in concorso con altri mammasantissima, di aver fatto parte dell’organo di vertice, Cosa Nuova, costituito nel 91 – su imitazione di Cosa Nostra –, col compito di risolvere le controversie insorte tra le cosche calabresi, di tenere i rapporti con le altre organizzazioni criminali nazionali ed internazionali, con la massoneria e con le istituzioni. Oltre a dirlo i pentiti, c’era una intercettazione ambientale a sostenerlo, eseguita il 16 maggio 1993, a casa della vedova di Paolo De Stefano, Rosa Errigo, dove il Nirta invocava l’intervento di Domenico Libri, di Giovanni Tegano, dei figli del De Stefano per porre fine alla faida di San Luca (vedi Francesco Vottari). Ritennero invece i giudici della Cassazione (il 10 aprile 2004, confermando le sentenze dei gradi precedenti): «Non si tratterebbe (…) di una organizzazione che fornisce impulso criminale esterno alle singole consorterie, non sarebbe neppure finalizzata a scopi economici, non si occuperebbe di strategie generali, né di omicidi eccellenti, ma costituirebbe un semplice organismo di controllo, in relazione al quale non vi è comunque, neanche prova in ordine all’effettivo espletamento di alcuna forza. Anzi l’inefficacia dell’organismo ipotizzato ha un suo evidente riscontro nel fatto che, nonostante l’asserita funzione di composizione delle controversie che gli sarebbe stata attribuita, nessun intervento concreto risulta esser stato posto in essere, allorquando le fibrillazioni ed i contrasti si sono verificati» (come dimostrato dalla strage di Duisburg). Tanto che, si dice, la risposta alla sua richiesta di pace fu: «Cu campa campa e cu mori mori», e tanto che il primo marzo 1995 gli ammazzarono il fratello più anziano, Giuseppe. Per questa accusa restò in carcere dal 18 luglio 1995 al 25 aprile 1998, e perciò chiese di essere risarcito per l’ingiusta detenzione, ottenendo la somma di euro 247.470,74. Il procuratore generale fece ricorso ritenendo che i pm semmai erano stati tratti in errore dalla condotta del Nirta, e nel 2006 la Cassazione accolse il ricorso rinviando gli atti per un nuovo esame alla Corte d’Appello.
Sanità Nel 2005 suo figlio Francesco, medico, risulta dipendente dell’Asl di Locri. Lo accerta la Commissione prefettizia nell’inchiesta condotta a seguito dell’omicidio del vicepresidente della Regione Calabria Francesco Fortugno (l’ente era già stato sciolto nel 1987 per infiltrazione mafiosa). Secondo la relazione Basilone (dal nome del prefetto), desecretata nel 2008, l’Asl favoriva le strutture private indebitando la sanità pubblica, senza nemmeno acquisire le certificazioni antimafia. Tra queste un centro diagnostico di Bovalino, il Pio Center, aperto all’interno di un edificio di cinque piani intestato ad Antonia Giorgi, moglie di Antonio Nirta. Il 96 per cento del capitale sociale era detenuto dal poliambulatorio Salus srl, di proprietà del medico Maria Immacolata Pezzano cognata di Giuseppe Nirta, figlio di Antonio Nirta (che concedeva in affitto all’Asl di Locri per 61 mila euro l’anno locali e attrezzature fin dal 1984, al tempo del sequestro). Il tutto fu sequestrato in via cautelare nel 2004, in quanto ritenuto di proprietà del Nirta, anche se intestato a suoi familiari, insieme a conti correnti e altri immobili per un valore totale di sei milioni di euro. Fu impossibile a Nirta giustificare tutta questa ricchezza, visto che lui era solo un caposquadra della forestale in pensione.
Rifiuti Suo fratello Giuseppe (quello morto ammazzato nel 95) è citato nel memoriale scritto da un pentito (rimasto anonimo), pubblicato sull’Espresso del 9 giugno 2005, come «il primo capo della ’ndrangheta a capire l’importanza del business dei rifiuti tossici e radioattivi». «Nel 1982 era il responsabile del territorio di San Luca, e mammasantissima, ossia vertice supremo dell’organizzazione. Per questo aveva contatti a Roma con personaggi dei servizi segreti, della massoneria e della politica... (…) Nirta però era un lontano cugino di mia madre, e per questo avevo una corsia preferenziale con lui, il quale più volte mi assicurò che il business dei rifiuti pericolosi avrebbe portato tanti soldi nelle nostre casse (…) In particolare Nirta mi spiegò che gli era stato proposto dal ministro della Difesa Lelio Lagorio, col quale aveva rapporti tramite l’ex sottosegretario ai Trasporti Nello Vincelli e l’onorevole Vito Napoli, di stoccare bidoni di rifiuti tossici e occultarli in zone della Calabria da individuare. L’ipotesi ventilata a Roma era quella di sotterrarli in alcuni punti dell’Aspromonte e nelle fosse naturali marine che c’erano davanti alle coste ioniche della Calabria. Nirta però mi disse che non voleva prendersi da solo questa responsabilità, e avrebbe quindi convocato i principali capi della ’ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria per decidere cosa fare (…) Da queste riunioni non uscì però un fronte comune. C’erano divergenze di opinione, perché non si voleva che sostanze pericolose fossero sepolte in Aspromonte, territorio amato dai capi e allo stesso tempo area dove abitualmente venivano nascosti i sequestrati. Alla fine fu deciso di entrare nel grande affare dei rifiuti pericolosi, con l’accordo che ogni famiglia avrebbe gestito le attività nel rispetto reciproco ma per i fatti propri. Si cercò così di trovare siti che fossero fuori dalla Calabria, oppure all’estero, e alla fine la scelta cadde per quanto riguarda l’Italia sulla Basilicata, perché terra di nessuno dal punto di vista della malavita. Quanto all’estero, si presero contatti con la mafia turca, referente della ’ndrangheta per l’acquisto dell’eroina, e la persona a cui facemmo riferimento era Mehmet Serdar Alpan, il quale è stato anche finanziatore dei Lupi Grigi». (a cura di Paola Bellone).