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 1950  gennaio 11 Mercoledì calendario

Corriere della Sera, 11 gennaio 1950 Dalla portina, alle 9.30, una donna entra nella gabbia

Corriere della Sera, 11 gennaio 1950


Dalla portina, alle 9.30, una donna entra nella gabbia. Ha un paltò nero, un poco infagottato. Una sciarpa di lana giallo chiaro, gettata sulla spalla, le copre mezza faccia. Tiene la testa china e si nasconde gli occhi con le mani, nere anch’esse per i guanti di filo. Pure i capelli, spartiti lateralmente con cura e raccolti sulla nuca, sono neri. Sembra una di quelle penitenti che si vedono inginocchiate nell’angolo più buio della chiesa, alle cinque del mattino. Invece è Rina Fort, la «belva». E contrizione quel nascondersi la faccia? No. Lo fa perché ci sono i fotografi. Intorno alla gabbia si sviluppa un tumulto affannoso di giovanotti che levano le macchine con le lucenti coppe per le lampade al magnesio. E i carabinieri hanno l’ordine di mandarli via. Balenano le candide vampe, sparate un po’ a casaccio. E lei non vuole. Proprio si copre gli occhi come quando si cammina contro vento, per ripararsi dalla polvere. Finché si ode, flemmatica e cortese come a un ricevimento d’ambasciata, la voce del presidente Marantoni: cedono allora anche gli ultimi più testardi fotografi. Torna la calma (...).

 Finalmente Rina Fort toglie le mani dalla faccia e gira intorno i primi sguardi, però senza apprensione nè paura. Una curiosità lenta, svogliata, che ricorda gli occhi dei buoi. Cercando riparo dai fotografi, senza neppure accorgersene, si è accoccolata quasi a terra, seduta sull’orlo della pedana di legno. Adesso parla al suo avvocato, e il moto della bocca ha fatto cadere giù la sciarpa. Voci sommesse intorno: «Ma non è mica brutta... Dalle fotografie sembrava una strega e invece...». Dice un avvocat: «Oggi non sta bene, oggi è sciupata, avreste dovuto vederla qualche giorno fa... Un fiore, era». Un fiore! Che curiosa idea. Certo il mostro di via San Gregorio non ha un volto da mostro. Niente di duro, o crudele, o singolare nei lineamenti. Non si direbbe neanche che la donna sia in prigione da tre anni. C’è anzi una strana quiete in quella faccia, una specie di appagamento fisico benché lei, con aria contrita, si lagni di non sentirsi bene: ha avuto la bronchite, la febbre ancora insiste e al mattino a San Vittore l’hanno tratta a forza dalla cella, dice, per portarla al palazzo di Giustizia. Senza accenti d’ira, però, senza alzare il tono. E si ode il leggero sibilo della «s» come delle beghine litanianti. Non è certo elegante, ma si vede che oggi ci teneva a presentarsi in ordine. Nuovi sembrano i guanti e cosi le scarpette nere. Bene stirato è il fazzolettino bianco che ogni tanto si preme sulla bocca. No, non si può dire brutta. Ha ancora, negli occhi un poco a mandorla, nel taglio del viso a zigomi alti, nel naso vagamente da meticcia, nelle labbra rilevate, una certa bellezza soda e popolana. Solo la bocca ha qualcosa di pesante, sornione e lontanamente animalesco.

 Che vedono i suoi occhi, inespressivi più che spauriti? (...). Si direbbe che Rina Fort non veda e non ascolti. Viene perfino fatto di credere che non pensi a niente. O per lo meno, non pensi alla rovina propria, né a chi dorme sotto terra per colpa sua, né alla punizione che l’aspetta. A vederla così inerte (non impassibile perché l’impassibilità è già una forza, seppure negativa, ma proprio inerte, atona, indifferente) si suppone piuttosto che mediti alle piccole ridicole cose della sua vita carceraria, alle cose che qui non c’entrano per niente: al lavoro di maglia cominciato lunedì, per esempio, o a una certa suora, o alle scarpe che le fanno male. Niente altro, si direbbe (...). A una porta laterale preme un gruppo di donne. Per un istante si socchiude un battente e un grido secco entra nell’aula: «A morte!». Voci confuse, altre invettive, maledizioni e insulti rispondono dal fondo, dove il pubblico si assiepa alla balaustra divisoria (in prima fila molte donne d’età, astiose e risolute, che sembra siano là per riscuotere un credito; le stesse identiche che facevano la calza ai piedi della ghigliottina nei giorni del Terrore). Ma il volto di Rina Fort non un tremito, una sia pur lontana ombra di paura. Che vuole quella gente? Contro chi se la prende? O addirittura lei non se ne è neanche accorta? L’avvocato difensore ha deposto sul banco il bocchino di penna d’oca che stava tormentando coi denti, si è aggiustato gli occhiali, si è gettato indietro sulle spalle la toga, come per avere più libero il respiro, e parla, riscaldandosi di frase in frase. Parla contro la costituzione a parte civile del Ricciardi; si oppone per tre motivi, dice, due giuridici e uno morale.

Poi insorge l’avvocato del Ricciardi, interviene il procuratore della Repubblica, c’è un battibecco; finalmente, anche lui contro il Ricciardi, irrompe come un mastino il legale dei Pappalardo. Caterina Fort però non si muove, è evidentissimo che non capisce niente. Ogni tanto, in mezzo al turbine dei termini giuridici, risuonano con bizzarro spicco parole di una chiarezza spaventosa. Sono tutti sinonimi: «Delitto... eccidio... strage... quadruplice omicidio». Era una simpatica contadinella, una volta. Aveva sedici anni quando lasciò il paese. Alla stazione le amiche, un po’ invidiose, scherzavano; «Vedrai, in città farai fortuna», le dissero, «vedrai, incontrerai un grande signore, un giorno ti vedremo tornare in automobile!». Lo dicevano per ridere, naturalmente, ma non poteva essere poi vero? Ora per lei, solo per lei Caterina Fort, tanta gente si è riunita, e i carabinieri hanno messo i cordoni d’argento e il pennacchio e il vecchio Castellucci, chiesastico e dickensiano ufficiale giudiziario, ha indossato la mantellina rossa. Gli avvocati parlano, parlano; «Quadruplice omicidio... massacro... assassina... vittime innocenti,.. spaventoso caso...». Di chi stanno parlando? Ode, non ascolta, Rina Fort. Non trema, non piange, non ha un palpito. Soltanto rotea adagio intorno i suoi sguardi bovini.

Dino Buzzati