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 2000  luglio 20 Giovedì calendario

Un leader di razza tradito da se stesso

la Repubblica, 20 luglio 2000

Succedono cose strane quando muore qualcuno con il quale hai avuto, da giornalista, rapporti frequenti e spesso polemici, qualcuno che hai conosciuto e frequentato, con cui hai discusso, polemizzato, del quale hai raccolto interviste dichiarazioni, talvolta confidenze. E succedono cose ancora più strane quando quel qualcuno è Bettino Craxi, morto improvvisamente ieri sera ad Hammamet, da latitante, condannato da un Tribunale italiano per corruzione e ricettazione. Nella testa di chi lo ha conosciuto si affollano le immagini e, non esito a dirlo, i sentimenti più diversi.

L’ho conosciuto che aveva poco più di trent’anni, consigliere comunale (o forse assessore, non ricordo bene) a Milano, un ragazzone alto massiccio che aveva stampata sulla faccia la voglia e la “felicità” del far politica. Scrivendone, previdi per quel giovanotto milanese un avvenire da leader. L’ho visto, l’ultima volta, come lo videro in televisione milioni di italiani, sulla soglia dell’hotel Raphael, sua residenza romana, fatto oggetto degli insulti della folla che si era radunata davanti all’albergo e del lancio delle monetine al grido di «Ladro, ladro».

Meno di trent’anni dividevano quelle due immagini, trent’anni nel corso dei quali l’uomo politico di razza che era (perché lo era, senza dubbio) aveva raggiunto una serie di successi – primo socialista a entrare a Palazzo Chigi e rimanervi per ben tre anni rompendo la serie dei governi brevi e impotenti cui sembrava destinata la Prima Repubblica – ma aveva mancato il più alto, quello di diventare il Mitterrand italiano, e aveva dissipato per una sorta di cieca avidità, nella certezza o nella illusione della impunità, tutto il suo patrimonio politico.

E lo ricordo ancora al Midas, il brutto albergo sulla via Aurelia, quando un Psi diviso e rissoso, ridotto a poco più del 9% dei voti ma ricco di personalità di primo piano, decise di affidare i suoi destini a quel quarantenne che aveva costruito la sua carriera all’ombra di Pietro Nenni e che, prudentemente, non aveva nemmeno preso la parola nel corso dei lavori di quel Comitato Centrale. Era il 16 luglio del 1976, nelle stanze e nei corridoio del Midas faceva un caldo soffocante. Qualcuno, sbagliando, pensava che si trattasse di una soluzione provvisoria, di transizione. Lo avevano sottovalutato.

L’uomo è intelligente, ambizioso, spregiudicato. Ha coltivato negli anni ottimi rapporti con i leader socialdemocratici europei. Viene definito “il tedesco” non solo per la sua capacità di lavoro e per i suoi legami con la socialdemocrazia tedesca, ma anche e forse soprattutto per la durezza del temperamento. Sulla stampa viene presentato subito come “il tedesco del Psi che non ama il Pci”. E’ vero, Bettino Craxi non ama i comunisti, che nelle elezioni del 20 giugno ’76 hanno raggiunto il 33% dei voti, ma, soprattutto – è questo il suo tratto caratteristico – non ha nessuna soggezione politica o culturale nei loro confronti. A un intervistatore (è Fausto De Luca della Repubblica) che gli chiede: «A lei fa paura il Pci?», risponde: «Mi fa paura il comunismo, non il Pci». E prosegue: «I giovani hanno avuto il Vietnam come grande esperienza, la mia generazione si è invece formata sotto il trauma dell’Ungheria».

Primum vivere: questo l’obiettivo del nuovo segretario del Psi. E anche soltanto vivere, o sopravvivere, per un partito socialista ridotto al suo minimo storico non è facile stretto come si trova tra i due partiti maggiori, il Pci (quello che Bobbio definirà in quei giorni il “terribile cugino”) e la Dc, che insieme, con circa il 75% dei voti, stanno avanzando sulla strada del “compromesso storico”. Primum vivere, e dunque stare nell’alleanza di governo (anche il Psi si asterrà sul governo Andreotti) ma insieme prendere le distanze dai comunisti. Nel Transatlantico di Montecitorio che il neosegretario socialista frequentava allora volentieri (solo più tardi comincerà a definirlo un suk e a definire i giornalisti “raccoglitori di cicche”) Bettino Craxi in quei convulsi giorni del 1976 mi prese da parte, mi confidò alcuni dei suoi progetti (“Cambiare, cambiare, è ora di portare gente giovane in tutti i posti di comando del partito”) per poi concludere: «Ti farò vedere io cosa si può fare anche soltanto con il 9% dei voti». E, in effetti, ce lo fece vedere.

Quel 9% dei voti, una miseria, doveva servire a “sparigliare”. Nei confronti della Dc di Moro (che non amava ed anzi disprezzava l’alleato socialista) e nei confronti del Pci di Enrico Berlinguer. Dal segretario del Pci, ideatore del “compromesso storico” lo divideva tutto. Erano due figure opposte, per temperamento stile cultura, persino per struttura fisica: fragile e quasi timido l’uno, aggressivo e corpulento l’altro, severo nei costumi e nei comportamenti l’uno, amante delle donne e della buona cucina l’altro. Avevano in comune un solo vizio, il fumo, che gli aveva reso giallastri i polpastrelli e le unghie. Berlinguer era un accanito fumatore di Turmac, Craxi preferiva (o gli avevano consigliato) delle sottili sigarette alla menta.

Cominciò a sparigliare subito, nel 1978 quando di fronte a un Pci impegnato nella “linea della fermezza” e quindi nel rifiuto di ogni trattativa con le Br che avevano rapito Moro, sostenne la linea della ricerca di una “soluzione umanitaria”. E continuò a “sparigliare”, sempre. In pochi anni Berlinguer e Craxi bruciarono, anche in virtù dei diversi caratteri e della reciproca diffidenza, ogni possibile occasione di incontro o anche soltanto di azione comune. Così quando Berlinguer privilegiava, nella prospettiva del “compromesso storico”, l’accordo con la Dc, Bettino Craxi rilanciava dal congresso di Torino un progetto, sia pure confuso, per l’alternativa di sinistra. E quando Berlinguer, nel 1980 avanzerà l’ipotesi dell’alternativa, Bettino Craxi sarà già su un’altra lontanissima sponda.

Il Psi aveva sempre soltanto il 10% dei consensi. Ma di quel partito Bettino Craxi non è più il segretario, ma il padrone assoluto, il fuhrer, come commenterà amareggiato Riccardo Lombardi. Viene incoronato padrone assoluto al congresso di Palermo, più simile ad una “convention” americana che a un tradizionale congresso di partito, mentre centinaia di belle ragazze distribuiscono tra la platea dei delegati e per le strade della città, i garofani arrivati, a decine di migliaia, con un treno speciale. Bettino Craxi ha capito tutto, in anticipo. Ma la sua dismisura lo porterà alla rovina. Ha capito che un partito moderno ha bisogno di una direzione monocratica, di un leader, in grado di muoversi sulla scena politica con assoluta libertà; ha capito che, più che il radicamento sociale, è importante il controllo del sistema dei media (di qui il suo legame con Berlusconi); ha capito infine che tra tutti i mezzi per l’azione politica, la priorità va assegnata alla risorsa finanziaria. Il vecchio Nenni, quando era diventato vicepresidente nel governo di centro sinistra, aveva invano cercato a Palazzo Chigi “la stanza dei bottoni”. Il suo discepolo, Bettino Craxi, capì che i veri bottoni da schiacciare erano quelli della cassaforte. Un finissimo storico socialista, Luciano Cafagna, ha scritto che Ghino di Tacco (secondo la felice definizione di Eugenio Scalfari), per poter taglieggiare gli alleati, per poter fare il ricattatore di professione, aveva bisogno di assoluta autonomia anche sul piano finanziario. Di qui la sua passione, la sua spregiudicatezza negli affari. Anzi, scrive Cafagna, si poteva fare di più: “e, attraverso un disegno diabolico, collocarsi come un ragno, al centro della tela del finanziamento politico, ampliandola a proprio favore più rapidamente degli altri, in modo da farsene addirittura regista e redistributore. E diventare così definitivamente centrale, indispensabile, arbitro”.

Per una drammatica ironia della storia, questo sembra l’unico vero disegno portato a compimento dal leader socialista che pure si era proposto obiettivi assai più ambiziosi, quale quello di modernizzare il paese attraverso una Grande Riforma (pur non ben definita) che rendesse possibile una autentica alternativa, che presupponeva però l’esistenza di una grande forza di sinistra socialista. Ma quando questa occasione, dopo la caduta del Muro di Berlino si presenterà, a lui, che ambiva essere il Mitterrand italiano mancò la necessaria lucidità politica e il coraggio. Accecato dall’arroganza e dall’avidità di potere, preferì scommettere sulla fine del Pci, il “terribile cugino” che stava affrontando il travaglio della fuoruscita dalla sua vecchia storia (e ne sarebbe sia pure faticosamente uscito a prezzo di una profonda lacerazione).

Né si accorse, Bettino Craxi, della valanga che si stava abbattendo sul suo partito. E quando Mario Chiesa venne arrestato, a Milano, con le tangenti ancora in tasca, pensò di poter liquidare la vicenda, definendo lo stesso Chiesa da “mariuolo”. Era il febbraio del 1992. E Craxi si illudeva ancora - singolare cecità – di poter definire i futuri assetti del paese, spartendosi con Andreotti il Quirinale e Palazzo Chigi. Poco dopo, doveva affrontare l’umiliazione del lancio di monetine davanti al Raphael, e poi la incriminazione e la condanna. Aver trovato e largamente usato i bottoni della cassaforte provocava il suo suicidio politico.

Miriam Mafai