Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 08 Lunedì calendario

Oggi è l’8 marzo, festa della donna. La storia della fabbrica bruciata con dentro più di cento operaie, l’8 marzo 1908 (New York, fabbrica Cotton, il padrone si sarebbe chiamato Johnson e avrebbe agito perché esasperato da uno sciopero con occupazione) oppure l’8 marzo 1911 (sempre New York, Triangle Factory, una Rose Freedman morta nel 2002 avrebbe raccontato: «I padroni avevano paura che rubassimo, così ci chiudevano dentro

Oggi è l’8 marzo, festa della donna. La storia della fabbrica bruciata con dentro più di cento operaie, l’8 marzo 1908 (New York, fabbrica Cotton, il padrone si sarebbe chiamato Johnson e avrebbe agito perché esasperato da uno sciopero con occupazione) oppure l’8 marzo 1911 (sempre New York, Triangle Factory, una Rose Freedman morta nel 2002 avrebbe raccontato: «I padroni avevano paura che rubassimo, così ci chiudevano dentro. L’incendio scoppiò e non tutte riuscirono a salvarsi») sarebbe falsa. L’8 marzo, come Giornata Internazionale della Donna, sarebbe stata scelta dalle donne russe, che nel 1917 sfilarono in massa per chiedere la fine della guerra.

Lei parla di storia per sfuggire al problema principale: le donne sono discriminate.
Non so nemmeno se è una notizia. Ho sul tavolo tonnellate di documenti da cui risulta che le donne, a parità di lavoro, guadagnano meno degli uomini, hanno minor presenza nei gruppi dirigenti delle aziende, sono un’esigua minoranza in politica pur essendo maggioranza nella popolazione, appena fanno un figlio devono ritirarsi, eccetera. Le proporrei di ragionare solo su tre di questi documenti: l’ultima ricerca internazionale del World Economic Forum (quelli che organizzano Davos), l’ultimo saggio scritto da un’italiana (Caterina Soffici, Ma le donne no, Feltrinelli), un’inchiesta molto importante dell’Economist del tutto ignorata dai nostri giornali

Cominciamo con quelli di Davos.
Fanno ogni anno un rapporto sulla condizione femminile nel mondo. L’ultimo è uscito lo scorso novembre. La classifica è stilata tenendo conto di 14 indicatori riferiti a quattro aree cruciali: economia e lavoro; istruzione; politica; salute e speranza di vita. Il risultato finale è che siamo al 72° posto su 135 paesi, terzultimi tra gli europei (peggio di noi cechi e greci), andiamo male soprattutto sul fronte della disparità salariale: il reddito medio delle donne è la metà di quello degli uomini.

La Soffici che cosa ha scoperto?
Intanto ci ha ricordato il nostro ritardo storico nell’affrontare la questione femminile: diritto di voto nel 1946, possibilità di essere assunta in un ufficio pubblico solo nel 1963, 1966: cancellato il reato di adulterio, parità tra marito e moglie stabilita solo nel 1975 (nuovo diritto di famiglia), 1981: abolizione del delitto d’onore, 1996: la legge ammette che la violenza sessuale è un delitto contro la persona e non contro la morale. A parità di lavoro, in Italia la differenza nello stipendio è del 26%, e tenendo conto del dato sui salari riferito sopra, questo significa che le donne sono mediamente impiegate in compiti di livello più basso. Il punto del libro che mi dà più da pensare è però quello in cui l’autrice si chiede se le donne di oggi vogliano veramente emancipazione e parità. La questione è rappresentata bene da un’osservazione dell’economista Adrian Michaels: «A 30 anni dalle richieste femministe su divorzio e aborto, qui le teenager vogliono lavorare come showgirl, ballerine e vallette di quiz a premi». E da un commento analogo di Ico Gasparri, fotografo e architetto: «Le ragazze di oggi sono più indietro delle loro nonne. Un secolo fa c’era una sorta di tolleranza femminile e le donne erano consapevoli dei propri diritti. Non potevano reagire, ma sapevano di subire un sopruso. Oggi il limite si è abbassato al punto che le ragazzine delle superiori non sono in grado di riconoscere una violenza. Se un compagno di classe le palpa, per loro è normale. E i maschi dicono: Se non urla, vuol dire che non c’è violenza».

Che cosa dice, infine, l’inchiesta dell’Economist?
L’Economist, nel suo ultimo numero, ha messo in copertina le scarpette rosa di una neonata e il titolo «Cos’è successo a cento milioni di bambine»?

Cos’è successo?
Non sono state fatte nascere o, quando sono nate, sono state strangolate o annegate nel latte bollente o lasciate morir di fame. Sto parlando soprattutto della Cina e dell’India, ma anche delle ricche Taiwan e Singapore. E del resto, anche in Cina e in India, il fenomeno è più vasto nei paesi o nei quartieri ricchi. In questa parte del mondo avere una figlia femmina è considerata una disgrazia. Grazie alla tecnologia, oggi è possibile sapere subito se a una mamma in attesa nascerà un bambino o una bambina. Questo ha reso la pratica degli aborti femminili un fenomeno di massa. In Cina, adesso, ci sono 124 maschi ogni cento femmine. Già oggi sposarsi è un problema e i cinesi ricorrono in genere ad agenzie che procurano ragazze coreane. Josephine Quintavalle, scrittrice, ha fatto questo commento: «E’ in atto una vera guerra contro le femmine. Una guerra che non colpisce solo le bambine non nate o lasciate morire, ma anche le loro madri. La Cina ha il primato dei suicidi femminili, effetto di una disperazione che nasce anche dagli aborti forzati». [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 8/3/2010]