Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 29 Sabato calendario

L’UOMO CHE VISSE PIÙ VOLTE


[Fabio Pisacane]

E poi ci sono storie come quella di Fabio Pisacane.
«A me m’ha salvato un libro. Se non avessi letto e riletto Come ottenere il meglio da sé e dagli altri di Anthony Robbins, imparando a pensare positivo, un mese fa sarei giunto anch’io alla stessa conclusione che in quel preciso momento sarà venuta in mente a tutti coloro che mi conoscono: questo qua è perseguitato dalla sfiga. Succede che alla mia prima partita in A, a 30 anni compiuti, l’arbitro mi fischia contro un rigore per un fallo commesso fuori area. Un altro sarebbe crollato. Io ho guardato Paloschi avviarsi pallido verso il dischetto e ho pensato: lo sbaglia. Ero tranquillo. L’ha sbagliato. È finita 3-0 per il mio Cagliari sull’Atalanta.
Il libro ti insegna a vedere il lato buono in tutte le cose. Me lo consigliò il mio allenatore alla Ternana, Mimmo Toscano: pensava che mi avrebbe fatto bene. Aveva ragione. Per me è come ripassare ogni volta una lezione, anche perché nella vita basta un attimo per buttarsi giù. E io ne so qualcosa».

VITA NEI QUARTIERI
«Sono cresciuto nei vicoli di Napoli, nei Quartieri Spagnoli. Da bambino giocavo a pallone per strada e vedevo la gente morire ammazzata intorno a me. Sono nato nell’86: a cavallo tra il ’90 e il ’96 c’è stata forse la più grossa faida di camorra nella zona. C’era un morto sparato al giorno. Qualche cicatrice me la porto ancora addosso, ma non rinnegherò mai le mie origini. E so che, guardandomi, vengono fuori tutte. Ho questo sguardo marcato: chi mi vede e non mi conosce si fa subito l’idea dello scugnizzo. Ma anche un ragazzo dei Quartieri Spagnoli può migliorare, crescere, fare dei discorsi, imparare a stare con gli altri in certi ambienti nei quali non ci si aspetterebbe riesca a stare. Tutto questo io l’ho fatto da solo: leggendo, studiando. Ho lasciato la scuola dopo la terza media perché due padroni, scuola e calcio, non si possono servire. Non mi vergogno a dirlo. Suonava la campanella e correvo a prendere l’autobus e poi la metropolitana per l’allenamento dall’altra parte di Napoli, portando sulle spalle un borsone più grosso di me. Tornavo a casa che era già buio, con la sola voglia di buttarmi a letto. Oggi ai Quartieri ho creato un’associazione di volontariato, la Pisadog: aiuto i ragazzi dotati a trovare una scuola calcio. Uno di loro, Antonio D’Amato, ora è allo Spezia ed è stato convocato nella Nazionale Under 15. Gli hanno ucciso uno zio da poco.

NIENTE SOLDI SPORCHI
Mio padre Andrea ha sempre fatto il venditore ambulante, oggi a 58 anni porta le pizze sotto la pioggia. Questo ti fa capire che nonostante tutto io e i miei 3 fratelli siamo cresciuti sotto un albero sano. Mamma Assunta invece è la numero uno: ha fatto una vita che adesso poche altre donne sarebbero disposte a fare. Al cinema sarà andata 5-6 volte nella sua vita. A cena con papà poche volte di più. Ha le mani deformate dall’artrosi per gli anni passati a tenerle sotto l’acqua, perché a casa mia lavastoviglie e lavatrice non ci sono mai state. I miei vivono ancora ai Quartieri: potrei comprargli un castello, ma a mamma mancherebbe l’aria».
«Le persone che mi hanno visto crescere oggi mi considerano un esempio, anche per quello che ho fatto in passato. Il fatto che un ragazzo dei vicoli abbia rifiutato 50 mila euro per vendersi una partita è la dimostrazione che nascere poveri non vuol dire nascere delinquenti. Successe ad aprile di 5 anni fa: il direttore sportivo del Ravenna, Buffone, mi offrì quei soldi per vendermi la gara che avrei giocato contro la sua squadra col mio Lumezzane. Buffone è stato condannato, io se lo incontrassi gli chiederei: perché proprio a me? Forse mi avrà giudicato anche lui per il mio aspetto, la mia faccia, la mia camminata spavalda, da duro. Ma un prete mi diceva: sotto quella scorza dura batte un cuore tenero. È il più bel complimento che abbia mai ricevuto.
Se avessi accettato quei soldi, e Dio sa se ne avevo bisogno, avrei rinnegato la mia famiglia, i miei valori, me stesso. Io ho fatto la fame, ma nella fame si cresce. Si impara a dare valore alle piccole cose, ma soprattutto si acquista una dignità che non ha prezzo.
All’epoca dissi: non sono un eroe. Lo confermo. Gli eroi sono Falcone, Borsellino, gente che si è sacrificata per la patria. Dopo quella denuncia Prandelli mi concesse una convocazione-premio in Nazionale: non potevo dire di no, anche solo per la soddisfazione di stare almeno un giorno a contatto con grandi campioni, ma, sinceramente, se non ci fossi andato non mi sarebbe cambiata la vita. In quel momento la mia persona rappresentava più che altro un messaggio positivo per gli altri».
«A 14 anni ero nel vivaio del Genoa. Una mattina mi sveglio, faccio per togliermi il pigiama e mi accorgo che le braccia non si muovono. Non riesco a sollevarle. Non piango: l’ho fatto poche volte nella vita. Chiamo a casa e mio padre si mette in treno. Esco dal Don Bosco, il convitto nel quale alloggiavo, per andargli incontro: barcollavo. La malattia stava già attaccando tutto il corpo. Indossavo una felpa e mi ero tirato il cappuccio sulla testa. Vedo mio padre, mi avvicino e lui passa oltre. Nelle mie condizioni non mi aveva riconosciuto. Lo chiamo, si volta e mi dice: “Ma tu così stai?”.

LA MALATTIA
Mi visitò il medico della prima squadra del Genoa. Mi disse: “Prova a correre”. Mio padre rispose: “Ha provato a farlo prima e dopo dieci metri è cascato come un sacco di patate”. Mi fecero prelievi di sangue e di liquido dal midollo spinale: il responso fu che soffrivo della sindrome di Guillain-Barré, un’infiammazione del sistema nervoso che attacca tutto il corpo fino agli occhi. Invece i nervi ottici furono i soli che nel mio caso non furono colpiti. Per il resto ero immobilizzato, fino alle dita dei piedi.
Entrai in ospedale il 9 settembre, ne uscii il 18 dicembre. Il 23 ottobre venni spostato in rianimazione perché la malattia aveva preso i polmoni e facevo fatica a espellere il muco che li ostruiva. Ho fatto 20 giorni in coma. Mio padre non si mosse dal mio letto. Mi disse: “O usciamo entrambi da questo ospedale o non ne esce nessuno dei due”. Quando guarii gli chiesi cosa avesse voluto dire, anche se immaginavo già la risposta. Lui rispose guardando la finestra dell’ultimo piano dove ero ricoverato: se non ce l’avessi fatta, si sarebbe buttato di sotto.
Di pallone non si parlava più. Facevo una specie di dialisi, tutti i giorni stavo 6 ore sotto una macchina che faceva bum-bum-bum. Papà mi comprò delle cuffie perché non sentissi più quel rumore. Per tutto il periodo del ricovero volli stare al buio. Una mattina dissi a mio padre: “Alza la persiana”. Volevo la luce. Ero guarito.
Finii la riabilitazione, a marzo-aprile, chiamai Claudio Onofri, che mi aveva portato al Genoa, e lo supplicai: “Mi dia una possibilità”. Mi mandarono a un torneo degli ’84 a Düsseldorf: venni eletto miglior giocatore. Col Genoa ho esordito in B, il 28 maggio 2005, in casa contro il Catanzaro. La curva mi dedicò un coro. Vincemmo 3-1, quel giorno ebbi per compagni giocatori come Milito e Lamouchi».
«Non sono tifoso del Napoli perché, se lo fossi, non potrei mai giocarci contro. Tengo per il Boca Juniors. L’ho scelto perché da bambino ero pazzo di Batistuta. Facevo l’attaccante, avevo la maglia gialloblù – i colori del Boca – e quando segnavo andavo a esultare alla bandierina come lui. In Argentina sono diventato famoso da quando hanno visto in tv il logo del Boca che porto tatuato sulla gamba. Perché solo a 30 anni sono arrivato in A? Evidentemente perché solo ora sono pronto. Non vivo di alibi. Non mi piace pensare che sia stata la malattia a frenarmi, né che sia stata colpa degli altri, delle etichette che mi sono state appiccicate come di uno troppo basso per fare il difensore, dell’infortunio – rottura del crociato – che mi ha tolto di mezzo dopo 7 giornate al mio primo campionato di B, a 26 anni. Mi piace pensare invece che quello che ho me lo sono guadagnato sul campo: miglior giocatore in Lega Pro al Lumezzane, capitano alla Ternana, miglior difensore di B all’Avellino per 2 stagioni. Sono nato per lasciare qualcosa. Se no non si spiega il fatto che sia qui, ora, dopo tutto quello che è successo. Lo dice pure il libro».