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 2016  ottobre 28 Venerdì calendario

PECHINO CAMBIA ARIA SPENDENDO 600 MILIARDI


PECHINO. La torre mangia smog disegnata da Daan Roosegaarde è bellissima: e infatti l’hanno messa in mostra alla Beijing Design Week, chiusa da poco. La Cnn l’ha definita un incrocio tra un’astronave spaziale e una pagoda. Ma questo incontro tecno-artistico tra passato e futuro è già fuori tempo massimo: declinarlo al presente non servirebbe. La torre è alta sette metri ed è capace di ripulire 30 mila metri cubi di aria in un’ora: peccato, dice il designer olandese, che appena installata a Pechino abbia raccolto ogni giorno tanto smog quanto ne racimolava in due settimane di servizio nei Paesi Bassi – ed evidentemente più puliti.
L’airpocalypse bussa ormai ogni mattina alla porta dei 21 milioni 700 mila pechinesi, che a colazione – con gli immancabili mantou, i panini al vapore – sono costretti a mandar giù la dose quotidiana di polveri sottili. Il governo lancia gli alert e quei simpaticoni degli americani, che pure in fatto di inquinamento non possono scagliare la prima carbonella, si sono divertiti a disegnare un’applicazione che dà dati ancora più pessimistici di quelli di Pechino. Il sistema registra appunto il livello delle polveri sottili, quelle che scientificamente vengono chiamate particolato, e lo trasforma in Aqi, cioè Air Quality Index. È la tecnica già usata dall’Epa, l’ente ambientale Usa, e registra la qualità dell’aria da zero a 300, dividendola in cinque categorie: buona, moderatamente buona, dannosa alla salute di gruppi sensibili (anziani, bambini, persone con malattie), dannosa, altamente dannosa. L’altra settimana, a Pechino, l’aria ha registrato molteplici picchi in cui era altamente dannosa: facendo temere appunto il ritorno di quell’airpocalypse che nel 2013 ha fatto rivolgere gli occhi di tutto il mondo al cielo sopra Pechino, con le terribili particelle 40 volte più su del livello di guardia stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità. Che fare?
All’ultimo G20, proprio qui in Cina, Barack Obama e Xi Jinping si sono stretti la mano: Washington e Pechino, che finalmente hanno ratificato l’accordo di Parigi, sono i principali inquinatori del mondo, con i cinesi che hanno sorpassato, anche qui, gli americani già nel 2007. La classifica del World Resources Institute dei gas serra inchioda la Cina con 20,09 per cento, seguono gli Stati Uniti con il 17,89, la Russia con il 7,53, l’India con il 4,10 e il Giappone con il 3,79. Se poi parliamo di emissioni di CO2 la responsabilità cinese è quasi il doppio di quella yankee: 27 per cento contro 15 (i 28 Paesi Ue, per la cronaca, concorrono “solo” con il 9 per cento, 1,2 l’Italia). Che vuol dire? Che il problema della Cina si chiama carbone. Non solo Pechino è il più grande produttore, ne è anche il più grande consumatore (18 per cento in più nel 2015), sfruttandone praticamente la metà di quello usato in tutto il globo. Ok, i numeri daranno anche alla testa, ma è inutile girarla dall’altra parte: un milione 600 mila morti all’anno possono bastare? Sono più di un terzo delle vittime ambientali di tutto il mondo. E sono, come ogni cosa qui in Cina, in aumento.
La guerra all’inquinamento dichiarata due anni fa dal presidente Xi Jinping per voce del premier Li Keqiang ha naturalmente anche un altro obiettivo. Le proteste della popolazione, l’anno prima, erano cresciute del 31 per cento: «La gente ha preso sempre più coscienza» dice Dong Liansai, tra i maggiori attivisti di Greenpeace per l’Asia dell’Est. «Le famiglie investono sui purificatori, per strada si indossano le mascherine. E tanti artisti popolarissimi hanno incominciato a puntare il dito contro l’inquinamento: Nut Brother,Wen Fang».
Su dove puntare il dito ci sarebbe l’imbarazzo della scelta. Quando il ministero dell’Ambiente ha stilato la classifica delle città pulite, solo 8 su 74 hanno superato l’esame: tra queste, Haikou, la capitale dell’Hainan che lo Stato ha trasformato in una cartolina dell’ambientalmente corretto, Lhasa, e voglio vedere se a 3.700 metri d’altezza l’aria non sia un po’ più pulita, e Zhoushan, che è in pratica un resort sul mare. Da Baoding in giù, invece, sette città nella top ten delle più inquinate sono nella regione di Hubei che circonda Pechino. Chiaro dunque che il risanamento riparta dalla capitale.
Non che le idee manchino. Ricordate quel tizio che da noi tanti anni fa voleva spianare il Passo del Turchino per eliminare la nebbia in Val Padana? Beh, adesso i cinesi vogliono chiudere il cielo intorno a Pechino, vietando nelle città limitrofe in senso ampio (fabbriche e case di 18 distretti) l’uso di impianti a carbone o petrolio anche per il riscaldamento, con il rischio di lasciare al freddo milioni di persone: l’obbligo scatterà a novembre dell’anno prossimo, si adatti chi può. A febbraio, gli ingegnosissimi pechinesi avevano già annunciato lo sviluppo di “corridoi ventilati”, nella città dove il vento è rarissimo: cinque grandi tunnel d’aria larghi più di 500 metri e altri più piccoli. Ma non c’è più tempo. L’americana Rand Corp. ha stimato in 6,5 per cento del Pil la “tassa” inquinamento: corrisponde quasi esattamente alla percentuale di crescita del Paese. Colpa dell’abbassamento della produttività: per ripulire solo Pechino quest’anno sono state chiuse oltre duemila fabbriche.
Che disastro. E non solo per le città, che pure sono il malato destinato a peggiorare, visto che entro il 2020 qui si prevede l’urbanizzazione del 60 per cento della popolazione, a fronte del 36 per cento di appena 15 anni fa. Neppure Mao Zedong, l’Imperatore-contadino, riuscirebbe a riconoscere più le sue campagne. Il 20 per cento del suolo è contaminato, più dell’80 per cento delle acque dei pozzi è veleno: non si può bere, non ci si può bagnare. Anche qui l’elenco delle bruttezze fa paura. Il bacino di Pingba, nel Guizhou, è diventato famoso per le immagini shock del ragazzino che si tuffa nella monnezza: era il 2006, è vero, ma l’altra foto da non crederci, della bimba che nuota tra le alghe giganti di Qingdao, nello Shandong, è del 2011, praticamente l’altro ieri.
L’ansia torna a galla con l’acqua sporca. L’altro giorno il governo ha buttato giù le linee guida che dovrebbero favorire l’aumento degli investimenti stranieri (86 miliardi di dollari quest’anno) con cui spera di bilanciare l’anemica crescita interna. Però ha finalmente vietato l’introduzione di qualsiasi attività che produca veicoli a benzina: 154 milioni di automobili nel 2014, 17 milioni in più rispetto all’anno prima, sono troppe. I soldi non mancano: 275 miliardi di dollari stanziati per migliorare l’aria, 330 per ripulire le acque, insieme alla promessa di arrivare al 2030 con il 20 per cento di energie rinnovabili. «È quella la vera sfida» continua Dong Liansai. «Nel 2015 Greenpeace ha potuto certificare per la prima volta il calo delle polveri sottili. Ma bisogna che il governo espanda le zone vietate al carbone e tiri dritto sulle rinnovabili: non basta agire a livello regionale, ci vuole un’azione nazionale».
Per il momento si va ancora in ordine sparso. A Guigang lo smog lo prendono a cannonate, sparando uno spray che dissolve le particelle, mentre a Pechino l’Ibm sta mettendo in campo l’intelligenza artificiale: un software prevederà il picco dell’inquinamento con un anticipo fino a 10 giorni, dando il tempo di prendere le contromisure. Ma serve anche altro. Il ministro dell’Ambiente, per esempio, si è accorto solo adesso che il linguaggio degli alert che funziona a Pechino (rosso quello massimo, giallo il secondo eccetera) non è lo stesso per le città limitrofe, le più inquinate. E così ha proposto, a partire dalla fine del mese, l’unificazione di un sistema che fin qui ha invece «ostacolato lo sforzo comune di combattere l’inquinamento». Altro che torre mangiasmog. Nella lotta all’inquinamento, la seconda potenza economica del mondo sta mettendo una pezza: a colori.
Angelo Aquaro