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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

LA LUCE NON MI BASTA PIU’

Grazie a un sogno appoggiato sulla spalla — quello di suo padre Renato, proiezionista di una grande casa cinematografica a Roma — è diventato il signore della luce. «A undici anni — ricorda a “la Lettura” Vittorio Storaro, tra i più grandi autori della fotografia cinematografica di tutti i tempi, tre volte vincitore dell’Oscar —, un po’ come il bambino di Nuovo Cinema Paradiso , spiavo il mondo da quel quadrato attraverso cui mio padre controllava tutto. È stato lui a spingermi a frequentare l’istituto tecnico fotografico, credo sognasse di fare parte delle immagini che proiettava. Un sogno che ha appoggiato su di me». C’è chi scrive con le parole, chi con le note «e chi, come me, con la luce». Ma guai a chiamarlo direttore della fotografia. «Di direttore sul set — precisa — ce n’è solo uno, il regista. Preferisco definirmi un cinematographer , uno che scrive con la luce».

Storaro parteciperà alla masterclass ospitata alla Università Iulm di Milano il prossimo 4 novembre. Un’occasione per conoscere da vicino l’arte di un maestro. A partire dalla sua più recente esperienza cinematografica, al fianco di Woody Allen sul set del film Café Society , il primo del regista newyorkese girato in digitale. «A dire il vero è stata la prima volta per entrambi: avevamo collaborato insieme alla fine degli anni Ottanta, poi per via dei rispettivi impegni ci siamo solo sfiorati ma non più incontrati. Fino a quando un anno fa il mio agente mi ha telefonato per chiedermi se ero disposto a lavorare con Woody». La risposta? «Sì, a patto che potessi leggere il copione. Il fatto che sia libero non vuol per forza dire che possa fare film con tutti... E Allen mi ricorda un po’ Fellini, nei suoi film mette se stesso, i suoi amarcord , avevo bisogno di visualizzare la storia prima di mettermi al lavoro. Studiare immagini, pitture, fotografie».

Il film prende il via dal Bronx, dalla modesta casa della famiglia Dorfman, da cui Bobby (Jesse Eisenberg) parte per approdare nella Hollywood degli anni d’oro prima e tornare agli sfarzi della New York della high society poi. «Nella prima parte della storia, quella ambientata nel Bronx, ho cercato di usare un colore desaturato, monocromatico, con una bassa tonalità della luce, ispirato alla fotografia di Alfred Stieglitz, e ad alcuni lavori su New York fatti da Georgia O’Keeffe». Nella seconda parte, quando Bobby arriva a Hollywood, Storaro ha dato invece alle immagini un aspetto molto caldo. «Qui — sottolinea — a ispirarmi è stata la fotografia di Edward Steichen e i pittori espressionisti tedeschi». La New York del ritorno a casa di Dorfman «non è più quella del Bronx e della povera gente, ma quella dell’ Upper Class che andava a cena in smoking. Così ho alzato la luminosità della luce, conferendole un tono di colore più sofisticato, che richiama lo stile Art Déco dei dipinti di Tamara de Lempicka». L’uso sul set della Sony F65 («il top di gamma oggi sul mercato per una fotocamera cinematografica digitale»), dice Storaro, lo ha pienamente soddisfatto. «Ho studiato per anni questa tecnologia, volevo che mi consentisse di esprimermi come ho sempre fatto prima. Ma non si può fermare il progresso. E così credo che tornerò al digitale anche per il prossimo set di Woody con Kate Winslet, Jim Belushi e Justin Timberlake».

Nel frattempo esorta i ragazzi a imparare le nuove tecniche, perché «è importante prepararsi. Nei nuovi supporti tutto è automatico: ma è fondamentale la conoscenza della luce e dei colori, e dei loro significati». In ogni periodo della storia, spiega, «c’è stata una forma espressiva che ha guidato le altre. In epoca greca la scultura e la filosofia, nel Rinascimento la pittura, la musica nel Settecento e la letteratura nell’Ottocento. Questo è il secolo dell’immagine: per questo motivo non si può prescindere dallo studio di tutte le espressioni d’arte che circondano questa parola. Immagine». A partire da significati e simbologie. «Quando noi guardiamo un film riceviamo dallo schermo un’energia che non tocca solo i nostri occhi, ma tutto il corpo. Ogni colore dà un certo tipo di energia, ci fa provare emozioni diverse. La luce cambia la nostra pressione sanguigna, il nostro metabolismo».

Tra i temi che toccano la sensibilità di Storaro c’è anche quello della friabilità del futuro del digitale. «Si pensa che la digitalizzazione sia permanente: non è così, il supporto su cui vengono registrati i film è persino più deteriorabile della tradizionale pellicola. La conservazione digitale è una sfida che va affrontata seriamente». Non è il solo ambito che chiede un cambio di passo. «Ancora oggi si tende a formare chi si occupa di cinematografia in modo tecnico, come un esecutore — osserva —. Poi c’è la necessità di qualcuno, di solito è il regista, che dice cosa fare: io credo che questo non basti più. C’è bisogno di un approfondimento culturale di tutto ciò che c’è intorno a un’immagine, dalla filosofia all’architettura, dalla pittura alla musica. Solo con queste conoscenze possiamo capire ciò che il regista ci chiede di fare». Quali sono stati i suoi maestri? «Devo molto ai fratelli Bazzoni. Poi ho conosciuto Bernardo Bertolucci nel 1963 quando ero aiuto operatore. Con lui ho fatto Prima della rivoluzione , un’esperienza che mi ha aperto un altro mondo, quello visivo. Il rapporto con lui ha riempito tutta la mia vita artistica». Incontra di nuovo Bertolucci nel 1970 sul set de Il conformista e di Strategia del ragno ; due anni dopo si ritrovano per Ultimo tango a Parigi a cui seguono Novecento (1976), La luna (1979) e L’ultimo imperatore (1987), con cui Storaro vince il suo terzo Oscar dopo quello per Reds (1981) di Warren Beatty e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. «Pensare che inizialmente non volevo fare questo film. Mi spaventava il pensiero di trovarmi su un set gigantesco, con elicotteri e plotoni di soldati, dove è difficile gestire le cose come si vuole. Al ciak! si doveva girare, mica potevo aspettare la luce adatta per ogni scena. Coppola mi aiutò moltissimo, mi fece leggere Cuore di tenebra di Conrad. Mi spiegò che non dovevo considerarlo un film di guerra, ma un film sulla civilizzazione e sull’atto di violenza insito nella sovrapposizione di una cultura su un’altra. Come nel libro originale il Belgio si era sovrapposto alla cultura del Congo, così l’America si sovrapponeva alla cultura vietnamita».

Tra gli incontri che hanno cambiato la sua vita, Storaro non dimentica quello fatto nella chiesa di San Luigi dei Francesi, nei pressi di piazza Navona, a Roma, dove poco più che ventenne, accompagnato dalla moglie Antonia, si imbatte nei tesori della cappella Contarelli. Tra cui la Vocazione di San Matteo di Michelangelo Merisi . «Pensai: Dio mio, tutti quegli anni a scuola per studiare cinematografia e mai una volta che qualcuno mi avesse insegnato qualcosa su di lui, sulla sua pittura! Con Caravaggio scoprii l’arte di un genio visionario: utilizzava la pittura, e quindi l’immagine, per raccontare storie. In lui il rapporto tra luce e ombra ha un valore psicologico profondissimo». Nella Vocazione la scena è immersa in una penombra tagliata da squarci di luce bianca da cui emergono visi, mani, abiti. «Con quel fascio di luce Caravaggio divide la luce dalle tenebre, il passato dal futuro, il conscio e l’inconscio, l’umano e il divino... Quel dipinto fu per me uno shock. Anche quando non ci penso — quando nemmeno sto facendo una connessione specifica tra la storia per un film e la Vocazione —, c’è qualcosa dentro di me sempre rivolto a quel dipinto. È parte di me».