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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

LA VERA MONACA DI MONZA

Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci assassinò a Monza Umberto I di Savoia, re d’Italia. Nemmeno il regicidio, tuttavia, riuscì a oscurare la fama di un fatto di sangue avvenuto in città tre secoli prima. Non un solo omicidio, ma una vera strage, consumatasi attorno al monastero benedettino di Santa Margherita: un antico convento, fondato dalle Umiliate sulle rive del Lambro, a cui si accedeva da un vicolo che, da quei giorni funesti, si chiamò «via della Signora». Vi trascorrevano i giorni, tra celle, chiostro e parlatorio, non più di 20 monache, sottoposte all’autorità dell’arcivescovo milanese, al tempo il potente cardinale Federico (detto da Manzoni Federigo) Borromeo. Tra le sorelle, professa dal 1591 con l’incarico di «sacristana et soprastante alle putte secolari», c’era suor Virginia, «la Signora»: cosiddetta perché, per delega paterna, esercitava i poteri signorili sul feudo di Monza. Immortalata dalle pagine del Fermo e Lucia , e poi dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni sotto le spoglie di Gertrude, è ancor oggi per antonomasia «la Monaca di Monza».

Fino al 19 febbraio 2017 nelle sale del Serrone della Villa Reale della Reggia, Monza rende omaggio in una mostra alla sua storia e alla fortuna postuma. Virginia Maria de Leyva, al secolo Marianna, visse una vita lunga, dal 1575 al 1650, segnata da orribili eventi e sofferenze atroci. Nel 1608 l’arcivescovo Borromeo, giunto a conoscenza di una catena di delitti in Monza, ordinò un processo canonico nei suoi confronti. La suora confessò d’essere amante e complice del dirimpettaio del convento, Gian Paolo Osio, padre dei suoi due figli (uno dei quali nato morto), che, per far tacere le voci sulla loro relazione, aveva ucciso e ferito a morte ben cinque persone. Tra queste c’era anche una giovane conversa, Caterina, che Osio aveva decapitato e smembrato. Gli interrogatori ricostruirono una fitta trama di correità: l’omertà di alcune consorelle, la connivenza di altre; la complicità passiva della superiora; quella, spesso attiva, del personale di servizio al convento, nonché il coinvolgimento morboso del curato di San Maurizio, Paolo Arrigone. Virginia, pur invocando il maleficio d’amore come attenuante, fu condannata a essere murata viva per 13 anni al ritiro di Santa Valeria a Milano. Sopravvissuta a quella prigionia terribile, divenne simbolo della penitente ideale: tanto che lo stesso Borromeo si disse vinto dalla sua sincera conversione e ne stese, a memoria dei posteri, una breve biografia.

La voce delle donne dalla prima Età Moderna ci giunge spesso attraverso le carte processuali. È la voce di criminali o di vittime, di imputati o di testimoni, i cui ruoli si confondono tra le pagine dei verbali. È la voce di migliaia di sventurate costrette — manzonianamente — a rispondere loro malgrado. Si leva da colonne infami di atti registrati, da documenti che sono viziati dall’idea di colpa, di peccato sovrapposto al reato: le sole tracce, il più delle volte, della loro esistenza. È un suono per orecchie maschili, quelle di giudici e inquisitori, che tendono a piegarla a logiche di sopraffazione e a professarne l’inferiorità anche quando, con le migliori intenzioni, si ergono a protettori e dispensatori di misericordia. Lo storico, di tali voci, non registra che gli echi, lontani e distorti. Dal silenzio del chiostro, poi, essi risuonano ancora più flebili: le donne sottratte al mondo e alla giustizia secolare, specie le nobili, compaiono in giudizio solo in casi assai rari.

Il clamore levatosi dal processo della Monaca di Monza ruppe invece la barriera delle cautele sociali, propagandosi nel tempo. Non fu l’eccezionalità del crimine, della criminale o del contesto a fare di Virginia una figura da consegnare ai posteri, ma ancora una volta la volontà di un gruppo di uomini, governati da inclinazioni di natura diversa. Un padre, un amante, un prete, i giudici, un cardinale-padre spirituale: costoro, nella doppia veste di liberatori e carcerieri, prima la privarono della facoltà di scegliere, poi la stigmatizzarono, poi ne fecero un’icona.

Il padre Martino, per Manzoni crudele e manipolatore, era nella realtà il figlio cadetto di una grande famiglia spagnola che, al pari degli altri genitori, considerava la figlia una risorsa economica da allocare con prudenza. Nessuna violenza effettiva, nessuna violazione delle norme canoniche: Marianna entrò in convento a 13 anni, e a 16 era suor Virginia, senza avere mai carezzato l’idea di un’alternativa.

La violenza, fisica e psicologica, sarebbe venuta da Osio: al corteggiamento seguì lo stupro e poi l’ossessione amorosa, a cui la giovane si aggrappò per fuggire alla claustrofobia del convento. Le fonti processuali confermano ciò che sappiamo della clausura in Età Moderna. Intorno a Virginia e alle consorelle ferveva un microcosmo zeppo di passioni e di interessi, materiali e immateriali, che spingevano le monache a stringere alleanze e fomentare conflitti, a contravvenire alle regole e cercare contatti con il mondo, a ricavarsi spazi emotivi e affettivi, a combattere il conformismo degli abiti, dei cibi, dei rituali quotidiani, delle devozioni. Scavare un buco nel muro, farsi corteggiare attraverso le crepe e dai tetti dei palazzi, coltivare un pezzo d’orto che fosse il proprio, far crescere i capelli, tenere un animale, attardarsi in parlatorio, pretendere privilegi e servizi destinati alle secolari, scambiare merci con l’esterno, infrangere il voto del silenzio, spezzare l’obbligo all’ignoranza e alla quiescenza leggendo libri proibiti, scrivendo memorie, conti, trattati: giù per una china di disobbedienza che a volte le monache non risalivano, che le portava a fornicare con i confessori, a stringere relazioni, a nascondere gravidanze.

Tutte queste pratiche disperate costellavano la Controriforma delle religiose, che il frammentarsi dei patrimoni spingeva al chiostro più che in passato e che l’attrazione per il secolo, un passo oltre le mura, induceva all’insofferenza. Ben lo sapeva la Chiesa, che aveva provato a sanzionare le monacazioni forzate ma che, a 40 anni dal Concilio di Trento, si trovava di fronte un panorama ormai antico: un clero ingovernabile, ignorante e peccatore, quando non criminale. Un risultato ben diverso da quello perseguito dai Borromeo, rappresentato dal curato Arrigone, laido corteggiatore di Virginia e delle consorelle, abile prestigiatore dei casi di coscienza, complice nei delitti di Santa Margherita. Eppure fu proprio il cardinal Federico, l’ultimo attore di questa recita maschile, a trasformare lo scandalo in risorsa, a volgere il pentimento di Virginia, seguito alla carcerazione, nel successo della sua politica di disciplinamento e di controllo dei comportamenti religiosi.

Come un ambiguo spettro, teso tra dissolutezza e santità, dal giorno della sua morte la Signora abita l’immaginario italiano e straniero. Il fantasma fu prima invocato dai cattolici a evocare la grazia divina vincitrice sulla corruzione. Poi, tra l’illuminismo di Diderot e l’Ottocento liberale e anticlericale, fu chiamato a mostrare la vana ferocia delle monacazioni forzate, del sistema del maggiorasco, della condizione femminile in un passato superstizioso e oscurantista. Le sventurate si moltiplicarono su carta e su tela, poi su celluloide, dando vita a drammi di reclusione, talvolta ad avventure scabrose. Dalle pagine storiche di Ripamonti e Cantù alla finzione letteraria di Manzoni, dall’iconografia dei dipinti ai fotogrammi, tra gotico e didascalico, Virginia de Leyva non sembra aver perso oggi nulla di quel fascino drammatico che sedusse prima il malvivente Osio, poi il grande Federico Borromeo.