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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

L’ITALIA IMMOBILE

Suona tutto così tremendamente familiare. Nel 1427 la Repubblica fiorentina, avendo affrontato spese oltre i propri mezzi durante anni opachi per l’economia, si trovava stretta da impellenze che la Repubblica italiana sei secoli più tardi avrebbe conosciuto bene: un debito preoccupante, l’evasione che metteva alla prova l’efficienza di alcune funzioni vitali dello Stato, elettori che chiedevano meno tasse ed equità nella pressione fiscale fra ricchi e poveri.
La differenza è che Firenze seicento anni fa reagì come un governo scandinavo del XXI secolo. Cercò di conoscere per deliberare, prima di tutto. Ogni capofamiglia venne invitato al catasto per dichiarare il proprio nome e le dimensioni della sua unità familiare, l’età, il mestiere e il reddito, le sostanze in denaro o in case e terre, quindi «crediti o traffici, gli schiavi, i buoi, gli armenti e le greggi». Negli uffici pubblici di quartiere si presentarono 9.780 nuclei familiari, 1.885 gruppi di affini con uno stesso cognome, e molte persone che, con una competenza alfabetica sorprendente, sui registri scrissero solo: «Non ho nulla». Questi nullatenenti erano poco meno di un sesto degli abitanti, poi però c’erano gli altri: i capifamiglia dei ceti medio-bassi, medi ed elevati; il ritratto dei loro redditi e dei loro patrimoni assunse una precisione che in seguito la reticenza dei più facoltosi avrebbe reso impossibile in Italia per secoli a venire.
È un piccolo miracolo di trasparenza, quello che si compie a Firenze nel 1427. La pressione della maggioranza per far sì che anche i ricchi pagassero fino in fondo le tasse non permise al governo cittadino di prendere scorciatoie. A chi occultava i beni non fu offerta una voluntary disclosure per farli emergere dietro versamento di una somma: venne promessa la confisca. A nessuno furono distribuiti bonus, sgravi o sussidi senza curarsi del reddito familiare di chi li riceveva: venne dato a tutti i contribuenti il diritto a effettuare detrazioni d’imposta, ma proporzionali al numero di «bocche» (da sfamare) in famiglia. Ne aveva per esempio nove e ricevette perciò sostanziali sgravi un certo Manno Mannucci figlio di Benincasa, 53 anni, che si dichiarò artigiano del legno. Quest’uomo aveva in città tre capifamiglia parenti di cognome Mannucci, tutti dipendenti pubblici (il catasto non precisa se militari o civili): il sessantaquattrenne Antonio, il trentaduenne Giovanni e il ventisettenne Lorenzo, che decenni dopo avrebbe assunto cariche politiche e sarebbe stato insignito da Papa Leone X del titolo di conte.
Questi quattro Mannucci discendevano con ogni probabilità da un soldato di ventura tedesco («Alemanno, Mannuccio»), forse sbandato in Toscana durante le incursioni di Federico Barbarossa. Circa un secolo e mezzo prima i loro antenati erano stati espropriati di un lotto di terreno in quella che oggi è piazza della Signoria. Nel 1427 il loro patrimonio di famiglia, finanziario e immobiliare, arrivava a 437 fiorini; si trattava di una ricchezza pari circa a 13 anni di reddito di un manovale — secondo lo storico dell’economia rinascimentale Richard Goldthwaite — ed era distribuita in un clan familiare di quattro nuclei e 21 persone. Se gli oggetti e i servizi acquistabili con quel denaro fossero anche solo lontanamente paragonabili a quelli attuali — cavallo contro smartphone, precettore contro master alla Bocconi —, oggi li valuteremmo in circa 250 mila euro.
I Mannucci erano rappresentanti del ceto medio. Il loro patrimonio era del 30% circa superiore a quello mediano delle famiglie fiorentine e si collocavano esattamente nel 48esimo percentile di ricchezza, cioè alla base della piramide della metà più ricca della città. Quasi sei secoli più tardi, nell’anno d’imposta 2011, compaiono 149 Mannucci fra i contribuenti di Firenze, e nel complesso continuano a essere solidamente ceto medio: il loro reddito dichiarato in media è di 31.775 euro, circa un quarto sopra alla media cittadina, ovvero più o meno esattamente dov’era il patrimonio dei Mannucci rispetto al patrimonio mediano dei fiorentini sei secoli fa. In una bottega artigianale di un quartiere che sta dolcemente invecchiando, a sud est lungo la ferrovia, un discendente di quegli antenati è dedito insieme ai figli al restauro di affreschi e architetture antiche, come lo erano stati suo padre, suo nonno e suo bisnonno («Più indietro, non saprei»). Si chiama Fabio Mannucci, nato nel 1958, autore di importanti lavori di recupero sul Battistero di Firenze, sul Cenacolo della chiesa di Santa Croce, a Santa Maria Novella e Santa Maria Maggiore.

Ma di questo parleremo più tardi, perché prima occorre precisare che questa è la storia di uno scoop. Non della «Lettura» o del «Corriere della Sera». Lo hanno fatto due economisti della Banca d’Italia, Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, che pochi mesi fa hanno pubblicato un articolo su questi temi discusso in tutto il mondo. Barone e Mocetti comparano i dati del catasto di Firenze del 1427 con i redditi medi degli 807 cognomi che restano in città dei 1.885 di sei secoli fa e mostrano — coprendo i nomi per rispetto della privacy — che da allora a oggi ben poco potrebbe essere cambiato. Benché nel frattempo l’economia si sia moltiplicata di almeno 12 volte in termini reali, le cinque famiglie dai redditi più alti all’inizio di questo decennio erano in cima alla scala sociale anche allora; le famiglie o i cognomi dai redditi più deboli erano in basso anche allora. Tutto così tremendamente familiare.
Il grafico qui sopra («La curva del Grande Gatsby») porta un nome assegnatogli da Alan Krueger, ex consigliere economico di Barack Obama, e lo ha compilato l’economista canadese Miles Corak: fa vedere che l’Italia fra i Paesi avanzati è uno di quelli a più bassa mobilità sociale, oltre che a più alta diseguaglianza dei redditi. Trovarsi in alto a destra in quella curva significa che — oltre ad avere vaste distanze fra ceti — in media almeno circa metà del privilegio o dello svantaggio di reddito dei genitori in Italia, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, passa ai figli (in Scandinavia invece meno del 20%). Non ci sarebbe bisogno di figure astratte, in fondo basterebbe guardarsi intorno: questa è una società in cui le facoltà universitarie sono piene di professori dai cognomi curiosamente identici, e in cui i figli dei dentisti diventano dentisti, quelli degli allenatori di calcio e dei manager sportivi fanno i procuratori di calciatori, i figli di politici corrotti ricevono avvisi di garanzia per corruzione, quelli di presentatori di serie televisive di successo proseguono quelle serie televisive con altrettanto successo e persino i figli dei guru antisistema diventano guru antisistema (conservatori anche loro).
Corak con la sua curva del Grande Gatsby, dal nome del ricchissimo eroe di Francis Scott Fitzgerald, guarda solo all’ultima generazione di padri e di figli adulti. Ma il mistero che lega la Firenze del 1427 a quella di oggi è che queste dinamiche potrebbero avere radici più profonde e — dubbio inquietante — l’ereditarietà dei ruoli fra genitori e figli in Italia potrebbe non essere solo frutto di conoscenze, raccomandazioni e opportunità aperte senza fatica. Tutto questo conta. Ma a volte i figli sono davvero bravi nell’arte dei padri. Qualcosa di essa, in qualche modo, in un certo momento, è passato dentro e attraverso di loro.
Il marchese Piero Antinori, 78 anni, è uno di quei fiorentini la cui famiglia è presente nel catasto del 1427 e anche prima. È un produttore di fama globale di vini di qualità, abita e lavora a Firenze in piazza Antinori nel Palazzo Antinori, sul cui lato è ancora presente una finestra che dà in vicolo del Trebbio, con incisa un’insegna nella pietra della cornice: «Vino». Gli antenati vendevano da qui il prodotto di famiglia probabilmente a partire dal XVI secolo, ma già nel 1385 si trova nei registri di Firenze un Giovanni figlio di Pietro Antinori iscritto all’arte dei vinattieri. Ancora oggi il marchese Piero, quando è a New York, torna spesso al Metropolitan Museum of Modern Art per dare un’altra occhiata al Ritratto di un giovane del Bronzino (1530 circa) che trova di particolare ispirazione per sé. «È l’immagine perfetta — dice Antinori — del mercante fiorentino. Gli occhi guardano lontano, il corpo esprime forza, la mano destra tiene aperto un libro a significare che i guadagni non sono un valore in sé: la cultura lo è».
A conferma dell’ipotesi di Barone e Mocetti, anche nello status degli Antinori si ritrova una continuità sorprendente. Nel 1427 hanno a Firenze cinque capifamiglia iscritti all’albo dei setaioli, commercianti internazionali di un prodotto di lusso che rappresentava la prima voce dell’export italiano ancora fino agli anni del fascismo. Il loro patrimonio era di 1.659 fiorini — circa un milione di euro nella trasposizione immaginaria di oggi — ossia cinque volte più di quello mediano delle famiglie fiorentine (quattro volte superiore a quello dei Mannucci) e tale da collocarli ben dentro il 20% più ricco delle famiglie della città. All’inizio di questo decennio, il reddito medio dei 14 contribuenti di Firenze sotto il nome Antinori è quasi quattro volte superiore a quello medio dei residenti nel comune. Il patrimonio di ieri, ancora una volta, diventa reddito oggi.
Neanche questo però svela il segreto di un’incredibile continuità familiare, immobilità sociale ed enorme spreco del talento di chi nasce fuori da linee ereditarie così lunghe. Decine di discendenti dei fiorentini più poveri del 1427, contattati per questo articolo, hanno riattaccato il telefono dopo poche parole. Ma quando li si interroga sulla radice della loro dedizione, uomini come Antinori o Mannucci e i suoi figli non rispondono parlando di economia, sociologia o valori aviti. Parlano di odori. Piero Antinori intuì l’importanza della produzione del vino nella sua famiglia verso la fine della guerra, il giorno in cui suo padre entrò in grande agitazione e corse con lui — piccolo di cinque anni — in calesse verso le cantine della loro proprietà in Val di Pesa. «Sentii un odore anomalo nelle campagne, era vino. I tedeschi si erano ritirati mitragliando le nostre botti. Quel momento mi è rimasto impresso, fu il punto da cui siamo ripartiti come famiglia e azienda». Anche Fabio Mannucci rievoca un punto di partenza: il giorno in cui suo nonno lo portò a rifare un muro al Palazzo dell’Arte della Lana («avrò avuto dieci anni»); suo figlio Filippo fa risalire il suo mestiere «all’odore di vernici, calce e coppi invecchiati che ho sempre sentito dalle elementari».

Tutto questo ha un senso, anche in teoria. L’educazione implicita ricevuta dagli odori, i suoni, le atmosfere o i gesti dei genitori nei primi anni di vita determinano il futuro anche più dell’istruzione formale della giovinezza. Nel 2006 il premio Nobel per l’economia James Heckman pubblica, con il neurobiologo Eric Knudsen, la psichiatra Judy Cameron e il sociologo Jack Shonkoff, uno studio in cui si dimostra che le differenze nelle capacità sociali, emotive e cognitive dei bambini di tre anni sono già enormi in base agli stimoli forniti dai genitori. Spesso poi quei vantaggi e quei ritardi non svaniscono più, diventando durante la vita distanze in redditi, salute, felicità. Heckman parla di «bagno somato-sensoriale» della prima infanzia, in cui un bambino «organizza alcune aree fondamentali del suo cervello» solo se riceve gli stimoli giusti. Sono questi che permettono di produrre doti come l’attenzione, la persistenza, la motivazione, l’autocontrollo o altre risorse puramente cognitive: in America un figlio di professionisti laureati all’età di tre anni usa già 1.400 parole, un figlio di operai 750, quello di disoccupati 500. Lo scarto non si chiuderà più.
Non c’è determinismo genetico, né conta solo la rete sociale delle raccomandazioni. C’è un patrimonio di privilegi o svantaggi che si trasmette nella vita dei figli anche prima che lo capiscano. L’immobilità di Firenze nei secoli ha i suoi segreti, alcuni pregi e il difetto di sprecare il talento di troppi. Fabio Mannucci ci pensa sopra un attimo e chiede: «Ma non è assurdo?».